«lo e Margaux, un autunno a Parigi» di Alain Elkann

«la e Margaux, un autunno a Parigi» IL RICORDO DI UNA STAR «Era forte e fragile allo stesso tempo e non faceva che confidarmi le sue paure» «la e Margaux, un autunno a Parigi» «Così conobbi la nipote di Hemingway al Louvre» Ai Parigi nell'otktobre del 1989 Alberto Moravia abitava a casa mia e una domenica volle che lo accompagnassi a una sfilata di moda di Enrico Coveri. Io non volevo andare, ma lui insisteva. Così mi convinsi a seguirlo e lo accompagnai al Louvre. Mi sedettero tra Alberto Moravia e una ragazza bionda, grande, americana con cui feci subito amicizia. Lei mi parlava di pittura, di una vacanza che doveva fare nel Sud della Francia. Mi disse che là avrebbe anche giocato molto a tennis. Poi mi comunicò, discretamente, che abitava all'albergo Ritz per altri due giorni. Alla fine della sfilata ci salutammo, io uscii con Moravia e lui mi chiese: «Conoscevi la Hemingway?». Così vomii a sapere chi era quella ragazzona bionda che aveva recitato nel film «Lipstick». Gli chiesi subito: come la trovi? «Un po' grande, troppo alta, "beei'y", come sono certe donne americane». Pranzai per la prima volta con Margaux alla Brasserie Lipp, portava strani occhiali, con lenti azzurre, mangiava pochissimo e beveva acqua in eccesso e successivamente cappuccini sempre in eccesso. Mi disse che portava quegli occhiali perché era dislessica e mi raccontò di essere molto dimagrita dopo essere stata al «Betty Ford Center» a Palm Springs. Rideva in modo infantile, aveva denti piccolissimi, gesti nervosi. Talvolta scuoteva la testa come se una mosca, che non c'era, le stesse dando fastidio. Era anche molto timida e talvolta guardava come per terra. Le chiesi com'era suo nonno. Lei lo ricordava da bambina a Cuba nella sua villa, stava seduta sovente sulle sue ginocchia e lui le raccontava delle lunghe storie e lei gli tirava la barba bianca. Lo ricordava anche mentre scriveva in piedi con i calzoni corti. Poi mi parlò di caccia, di una sua avventura di pesca in Africa e di molte sue avventure giovanili e dei suoi uomini e dei suoi mariti e del fatto che voleva dipingere, voleva fare un film. Margaux era buddhista e passava ore a meditare. Cercava in ogni modo di convincermi che sarebbe stato opportuno anche per me pas¬ sare alla meditazione trascendentale. La mattina si svegliava prestissimo e camminava per ore attraverso Parigi. Dal Ritz si spostò prima all'hotel Crillon in place de la Concorde, perché era amica del proprietario. Poi quando decise di stabilirsi a Parigi, una sua amica le trovò un appartamento dalle parti dell'Etoile. Io lavoravo lì accanto e ogni tanto si prendeva un cappuccino in un bar dell'avenue Montai¬ gne. Lei era spesso agitata, apprensiva, portava un cappotto lungo e dei foulard in testa. Il cappotto era grigio scuro, stivali altissimi marroni e scriveva continuamente su una grossa agenda. Scriveva anche lunghe lettere a suo padre, alle sue sorelle, a dei suoi amici. Mi parlava spesso delle sue sorelle, soprattutto di Mariel, di cui era un po' invidiosa. Parlava anche con affetto di suo padre. Mi parlò di nuovo del nonno e dei mariti che le avevano portato via tutti i suoi soldi. Ma quando parlava di cose tristi non si lamentava, lo raccontava come un fatto. Era una ragazza buonissima, angelica, con una voce bambinesca che in certi momenti sembrava anche viziata, ma era l'accento californiano che dava quell'intonazione. Margaux mi raccontava di un anno tremendo passato a New York. Lei viveva in un appartamen- to dell'Upper West Side con un fidanzato che lavorava a Wall Street. Di nascosto beveva gin che allungava con acqua minerale. La sua unica distrazione era andare furtiva fino alla libreria Rizzoli, altrimenti si vergognava, si sentiva troppo grassa e troppo sovente ubriaca. Poi trovò la forza di andare al «Betty Ford Center», di lottare. Non mangiava, faceva continui esercizi. «La bulimia è una cosa terribile - diceva spesso -. Si mangia e si vomita, si mangia e si vomita». Dopo Natale, Margaux andò a girare un film in una foresta vicino a Parigi. Stava in un albergo e ogni tanto mi telefonava. Sembrava contenta di riprendere il suo lavoro. Verso febbraio tornò a Parigi e ricordo che una sera andai a trovarla a casa sua. Stava facendo ginnastica in modo ossessivo, maniacale. Non mi rivolse la parola e continuò a far ginnastica. Io finii per seccarmi, me ne andai e non ci siamo mai più visti. Margaux si divertiva perché io la soprannominai «Childhood» (infanzia). Essere Hemingway era una cosa molto importante per lei, ma c'era qualcosa che invece, contrariamente a tutti i suoi sforzi, la portava a deviarsi. Quando l'ho conosciuta era nella fase di recupero, ma sapeva che la sua stella, la sua leggenda era tramontata. Di lei ricordo il sorriso caldo e dolcissimo e lo sguardo turbato e insicuro di certi bambini infelici. Alain Elkann «Ci incontrammo grazie a Moravia Quando andavamo a pranzo beveva molti cappuccini e cercava di convertirmi al buddhismo» A sinistra Margaux Hemingway. A destra l'attrice assieme alla sorella Mariel