Pasticciaccio brutto nella Serenissima

Pasticciaccio brutto Tangentocrati, corvi, pentiti, giudici corrotti: dalla Venezia del '600 un intrigo che sembra scritto oggi Pasticciaccio brutto p nella • • Serenissima i L breve libro che ho sotto gli occhi racconta vecchie storie giudiziarie di patrizi e di ebrei accadute nella Repubblica di Venezia durante la prima metà del secolo XVII. S'intitola Giustizia «contaminata» ed è stato pubblicato dall'editore Marsilio in una collana promossa dalla Fondazione Cini. E' il libro erudito di uno studioso colto e acuto, Gaetano Cozzi, che ha dedicato buona parte della sua vita a scavare negli archivi della Serenissina per ricostruire la storia politica e sociale della sua città. Ma è anche un libro affascinante e inquietante. A mano a mano che si addentra, con la guida di Cozzi, nei palazzi giudiziari e nelle carceri della Venezia secentesca, il lettore si accorge d'essere caduto prigioniero di una micidiale «macchina del tempo». Come in certi film di fantascienza il libro è attraversato da uno schermo invisibile che separa il passato veneziano dal presente italiano. Credete di leggere storie antiche quando improvvisamente una parola, un episodio, un personaggio vi scaraventano nell'attualità giudiziaria dell'Italia repubblicana. Leonardo Sciascia ne avrebbe fatto un romanzo e lo avrebbe ambientato nelle Procure di Palermo, Roma o Milano. Proverò a raccontare la trama. La storia comincia nel 1633. Venezia è una vecchia potenza, stanca, malata e insidiata da temibili nemici. Ma ha un grande impero, nobili istituzioni e straordinari guizzi di orgoglio civile. Qualche anno prima, tra il luglio del 1630 e l'ottobre del 1631, è stata colpita da una peste che ha ucciso un quarto della sua popolazione fra cui (giacché questi sono i protagonisti della nostra storia) 217 nobili e 450 ebrei. Dispersi i malefici umori della peste, i veneziani, ricorda Cozzi, si ritrovarono in «una città svuotata» dove la produzione era in declino e i generi di prima necessità si vendevano a prezzi esorbitanti. Come sempre accade in questi casi l'epidemia impoverì soprattutto i poveri e in particolare la piccola nobiltà, ricca solo di tradizioni e di debiti, a cui lo Stato veneziano affidava generalmente compiti amministrativi e giudiziari. Per dare una risposta al malumore dell'opinione pubblica le autorità della Repubblica presero provvedimenti moralistici e polizieschi: deplorarono la speculazione, imposero agli ebrei un prestito straordinario e ordinarono ai nobili ricchi di non ostentare la loro ricchezza con feste e banchetti. In questo brutto clima civile ed economico serpeggia la voce che i giudici di uno dei maggiori tribunali sono pronti ad «aggiustare» i processi. I tribunali sospettati sono le Quarentie, così chiamate perché ciascuna si compone di quaranta magistrati, tratti generalmente dalla parte più umile del patriziato veneziano. Sono temuti e potenti, ina conducono la vita di quei nobili spagnoli che passano la giornata a letto per non sciupare l'unico abito con cui possono decorosamente passeggiare sulla via principale della città. Le voci preoccupano 0 Consiglio dei dieci che affida un'inchiesta all'«avogador di comun» (oggi diremmo procuratore della Repubblica! Marco Contarmi. I sospetti cadono sul nobiluomo Lunardo Battagia che ha l'abitudine di mettere le cause «a calendario» soltanto se la parte interessata è pronta a compensarlo delle sue pene. L'avogador chiede che egli venga arrestato con i suoi complici, ma il Consiglio dei dieci decide, a maggioranza, di «depennare» l'inchiesta; e il caso di Lunardo Battagia scompare così nelle nebbie della maggiore magistratura veneziana. Ma qualche mese dopo, nel novembre del 1635, una lettera anonima, inviata al Consiglio dei dieci, denuncia «alcuni ebrei che senza timore del Signor Iddio... fanno mercanzia di giustizia» promettendo la benevolenza dei tribunali. La lettera è scritta così male e con tali madornali errori di ortografia che il Consiglio sospetta dietro di essa mi «corvo», falsamente ignorante e perfettamente a suo agio nel labirinto della giustizia veneziana. Non esistono tazze di caffè e impronte digitali, ma i sospetti cadono sul cancellier grande Giovan Battista Padavin, coinvolto da tempo in una lite giudiziaria con alcuni parenti per la divisione di beni ereditari. Entra in scena a questo punto un altro avogador, Marin Bragadin, che interroga il cancelliere e intravede nella vicenda mia sorta di «interesse privato in atto d'ufficio». Ma col passare dei giorni il caso s'ingrossa intrecciandosi con quello di due furti in lussuosi negozi delle Mercerie. I ladri sono cristiani, ma i ricettatori sono ebrei e la refurtiva, a quanto pare, è stata nascosta nel ghetto. Gli ebrei diventano a questo punto i maggiori protagonisti delle indagini. Agli occhi degli inquirenti sono loro che prestano denaro alla piccola nobiltà veneziana, che ricettano merce rubata, che lavorano come sensali nei tribunali per procurare ai clienti la benevolenza dei giudici. E poiché i giudici sono spesso indebitati con i banchi del ghetto, il denaro della «tangente» esce dalle tasche del cliente per entrare direttamente in quelle del sensale. Dopo avere gettato l'amo in molte direzioni gli inquirenti arrestano due ebrei - Sabbadin Cattelan e Giacob Zorzetto - e cercano di ricostruire la rete della «giustizia contaminata». Dopo molti interrogatori e qualche tratto di corda Catte- lan e Zorzetto si trasformano in collaboratori di giustizia. Parlano molto, ma gli avogadori veneziani sanno che le deposizioni dei «pentiti» presentano un doppio rischio. In molti casi il pentito esagera, inventa e lancia nuove accuse per meglio conquistare la gratitudine degli inquirenti; in altri approfitta della situazione per saldare vecchi conti e vendicarsi dei propri avversari. Comincia così un crudele duello nel corso del quale i magistrati veneziani usano con raffinata abilità l'amia delle detenzione preventiva, dei confronti, della tortura, della pena di morte. Prima condannano i due ebrei all'impiccagione, poi rinviano l'esecuzione e lasciano intravedere la possibilità di una grazia. Vengono alla luce in tal modo le patetiche vicende di giudici corrotti, nobili spiantati, figli scapestrati, inconfessabili ménage. Qualcuno fugge nei «domini di mar» dove il braccio della legge veneziana arriva con maggiore difficoltà, qualcun altro si presenta agli ta duta 00 inquirenti e «vuota il sacco». Ma alcuni avogadori non si accontentano di accertare la verità e di ricostruire singole vicende giudiziarie. Qualcuno vorrebbe sfruttare l'occasione per condurre una personale crociata contro l'ebraismo veneziano. E' il caso di Zuanne Morosini, deciso a incriminare, se possibile, l'intero ghetto di Venezia. Fortunatamente gli ebrei, ricorda Cozzi, avevano nella società veneziana, soprattutto fra i nobili, molti amici pronti ad aiutarli. Nel mezzo dello scandalo, mentre maggiormente pesava sulla comunità il peso dell'indignazione popolare, un grande rabbino, Leon Modena, ottenne dalla Repubblica l'autorizzazione a pubblicare un libro - Historia di riti hebraici - «che offriva una descrizione di costumi di vita e pratiche devozionali ebraiche, perché l'ebraismo apparisse qual era, in tutta la luce della sua realtà attuale e della tradizione antichissima che ne era alla base». Sull'accanimento del Morosini prevalsero alla l'ine altre considerazioni: il buon senso del patriziato veneziano, la coscienza che la comunità ebraica, grazie alle sue relazioni nel Levante, era utile all'economia e alla diplomazia della Repubblica. Ma questo non impedì che alla fine delle indagini gli ebrei pagassero un prezzo più alto di quello che fu pagato dai giudici corrotti con cui avevano «aggiustato» i processi delle Quarentie. Cattelan e a Zorzetto ebbero salva la vita, ma furono condamiati a dieci anni di galera nelle navi della Repubblica; un altro ebreo, Isach Zacuto, ebbe tre anni di «prigione alla luce» e un cristiano, Andrea della Nave, fu condannato all'ergastolo. I nobiluomini invece vennero risparmiati o puniti in modi più sottili e meno appariscenti. Messa alle strette la magistratura veneziana aveva avuto un occhio di riguardo per i propri colleghi e per il «decoro delle istituzioni». Si discusse a lungo, ricorda Cozzi, sul modo in cui riformare le Quarentie. Ma alla fine fu deciso di non fare nulla. La Repubblica era troppo vecchia per accettare coraggiosamente il rischio delle riforme. Questo non le impedì tuttavia di vivere, o piuttosto di vegetare, per altri 160 anni. Ricordo a chi lo avesse dimenticato che fra un anno avremo il triste compito di commemorare la morte, per mano di Napoleone, del più glorioso Stato italiano. Qualche giorno fa la Corte Costituzionale ha negato al governo degli Stati Uniti l'estradizione di un cittadino italiano che i giudici della Florida vogliono processare per omicidio. L'argomento della Corte è semplice, lineare. L'Italia rifiuta la pena capitale e non può consegnare l'imputato alla giustizia di un Paese straniero se il reato per cui egli verrà processato prevede la morte. Poco importa che il governo degli Stati Uniti abbia promesso, in questo caso, di non eseguire la sentenza. Poco importa che altri Paesi, in circostanze analoghe, si siano accontentati delle assicurazioni americane. E poco importa infine che negli Stati Uniti sia fortemente radicato, a tutela degli accusati, il principio dell'habeas corpus. Se il reato è di quelli per cui è prevista la morte ogni diversa decisione, sostiene la Corte, sarebbe incostituzionale e contraria alla «civiltà giuridica» del nostro Paese. La sentenza mi è parsa giusta. Quando un principio è fortemente sentito dalla coscienza civile di una nazione le sue autorità non possono chiudere un occhio e collaborale tacitamente alla sua violazione. A torto o a ragione non esistono, per 1 '«Italia di Beccaria», reati che giustifichino la soppressione di una vita umana, e la Corte ha fatto bene, quindi, a respingere la domanda di estradizione. Mi ha lasciato perplesso tuttavia il cenno alla «civiltà giuridica» italiana. Se «civiltà» è la somma delle tradizioni, dei principi e dei valori che hanno messo radice nella mentalità giuridica di un Paese, temo che «civiltà giuridica» in Italia significhi anche detenzione preventiva, pentitismo, grandi crociate giudiziarie destinate a concludersi, prima o dopo, con risultati modesti e dettati dall'opportunità politica più che dalle esigenze della giustizia. Chiamato a scegliere fra un sistema penale che prevede la pena di morte e uno che la esclude, scelgo il secondo. Chiamato a scegliere fra la civiltà giuridica degli Stati Uniti e quella dell'Italia, non credo che sceglierei la seconda. Sergio Romano nobili istituzioni e straordinari guizzi di orgoglio civile. Qualche anno prima, tra il luglio del 1630 e l'ottobre del 1631, è stata colpita da una peste che ha ucciso un quarto della sua popolazione fra cui (giacché questi sono i protagonisti della nostra storia) 217 nobili e 450 ebrei. Dispersi i malefici umori della peste, i veneziani, ricorda Cozzi, si ritrovarono in «una città svuotata» dove la produzione era in declino e i generi di prima necessità si vendevano a prezzi esorbitanti. Come sempre accade in questi Ma qualche mese dopo, nel novembre del 1635, una lettera anonima, inviata al Consiglio dei dieci, denuncia «alcuni ebrei che senza timore del Signor Iddio... fanno mercanzia di giustizia» promettendo la benevolenza dei tribunali. La lettera è scritta così male e con tali madornali errori di ortografia che il Consiglio sospetta dietro di essa mi «corvo», falsamente ignorante e perfettamente a suo agio nel labirinto della giustizia veneziana. Non esistono tazze di caffè e impronte digitali, ma i sospetti cadono sul cancellier grande Giovan mente in quelle del sensale. Dopo avere gettato l'amo in molte direzioni gli inquirenti arrestano due ebrei - Sabbadin Cattelan e Giacob Zorzetto - e cercano di ricostruire la rete della «giustizia contaminata». Dopo molti interrogatori e qualche tratto di corda Catte- Carcerazione preventiva, vendette private. E ima Repubblica troppo stanca per riuscire a riformarsi Pietro Venezia, italiano di cui è stata negata l'estradizione negli Usa. Sotto, veduta della Serenissima in un'incisione del '600 prevalsero alla l'ine altre considerazioni: il buon senso del patriziato veneziano, la coscienza che la comunità ebraica, grazie alle sue relazioni nel Levante, era utile morte. Poco importa che il governo degli Stati Uniti abbia promesso, in questo caso, di non eseguire la sentenza. Poco importa che altri Paesi, in circostanze analoghe, si siano accontentati delle assicurazioni americane. E poco importa infine che negli Stati Uniti sia fortemente Carcerazione preventiva, vendette private. E ima Repubblica troppo stanca per riuscire a riformarsi Pietro Venezia, italiano di cui è stata negata l'estradizione negli Usa. Sotto, veduta della Serenissima in un'incisione del '600