Storie di ragazzi e ragazze senza«diritto di cittadinanza» di Alessandra Comazzi
=1 TIVÙ & TIVÙ' =1 Storie di ragazzi e di ragazze senza «diritto di cittadinanza» UN ragazzo nero racconta che una volta entrò in chiesa, e quando il prete disse: «Scambiatevi il segno della pace», nessuno gli volle stringere la mano. E lui si sentì morire. Poi il sacerdote scese dall'altare per stringergli la mano. E lui si sentì risorgere. Ma non ebbe più il coraggio di entrare in chiesa. Per un altro ragazzo la massima aspirazione è «essere come gli altri», né il massimo né il minimo. Una ragazza racconta che stava entrando a scuola, dove studia italiano, quando le si avvicinò un signore che la salutò e le chiese: «Quanto costa?». Lei si sentì molto male. Un ragazzo racconta che vendeva la solita mercanzia davano alla Standa, una signora lo aiutò, gli insegnò anche qualche parola di piemontese, lui ha frequentato un corso professionale, è diventato fresatore, e adesso vive in una comunità e ha una camera tutta sua, mentre prima viveva con altre 15 persone in due stanzette. Un'altra ragazza è un'emigrata privilegiata, è venuta in Italia perché si è sposata, la sua laurea qui non va¬ le, lei non ha trovato lavoro perché è difficile per tutti, e qui l'accusano di muoversi con un ritmo «latino-americano». Nessuno si sente cittadino italiano. E «Diritto di cittadinanza» si intitolava il primo dei tre «Racconti italiani» di Daniele Segre, fotografia di Paolo Ferrari, in onda ieri sera su Raitre. Segre è il regista di «Come prima più di prima t'amerò», un film sull'Aids che sarebbe semplicistico definire «di impegno sociale». Era qualcosa di più, era un esempio di come il racconto per immagini possa andare oltre sia al racconto sia alle immagini per diventare una denuncia, una constatazione, un'inchiesta, una possibilità. I temi dei «Racconti italiani» sono tutti sociali: nelle prossime puntate si parlerà di sanità e di lavoro. Ieri si è cominciato con l'immigrazione: soprattutto inquadrature fatte in primissimo piano di immigrati da diverse nazioni, ognuno dei quali portava un frammento che insieme componeva il quadro. Un quadro intriso di sofferenza, di umiliazioni, ma anche di consapevolezza: noi siamo quello che fu l'Europa per l'America, noi siamo il futuro; noi chiediamo ai mezzi di comunicazione di non generalizzare, di pensare che c'è chi spaccia droga, chi ruba e chi si prostituisce, ma anche chi vuole soltanto lavorare. Gli intervistati sono stati scelti con cura per dimostrare che non tutto è San Salvario, e che San Salvarlo si può anche guardare con occhi diversi, più asciutti. Asciutti come le immagini. Chi parlava, lo faceva con proprietà di linguaggio, qualcuno perfetta, e qualcuno si capiva che la stava acquisendo. Il rischio è che il telespettatore possa identificare gli intervistati con l'elite dell'immigrazione e che continui a diffidare. Ma proprio questo è lo scopo del film: ricordare che l'immigrazione è complessa e sfaccettata, che non si può accantonare il problema come fa lo Stato italiano che delega ogni iniziativa al volontariato. In televisione c'è posto per tutto, persino per un documentario che tiene il cervello al guinzaglio. Alessandra Comazzi
Persone citate: Daniele Segre, Paolo Ferrari, Segre
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