I corpi di Weber, architetture della sensualità di Marco Vallora

I corpi di Weber, architetture della sensualità Milano, si apre domani a Palazzo Reale la mostra dedicata al fotografo di moda americano I corpi di Weber, architetture della sensualità Nelle sue immagini legami morbidi, sfrontatezza spavalda, odore della vita ~~/\] MILANO ! | UANTE «v» di vittoria per I I la mostra WeberVietnam1 I VersaceViaggiVogue che Y 1 si apre domani nell'ideale V cornice arborescente e barocca della bombardata Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. Un antro imbevuto di ceneri e di frananti rovine architettoniche, che pare impaginata apposta per accogliere la fantasia rococò e languida di questo singolare maestro della fotografia americana, cinquantenne che continua a ripetere che non vuole concedere retrospettive: «Questo si farà dopo la mia morte, io sono vivo, sento di essere un giovane fotografo e voglio che la fotografia sia vicina alla mia vita, ogni giorno una cosa nuova. E' così difficile quando inizi, ma ogni buon fotografo inizia da capo ogni giorno. E' ancora una cosa talmente spaventosa alzarsi ogni giorno e prendere la macchina fotografica, eppure è qui il divertimento». Sfidare se stesso, l'aura da maestro che non gli è mai piaciu- ta. Rimettersi in gioco, come gli ha insegnato Dyane Arbus, la geniale fotografa di nani e mostri del buon vivere americano, incontrata un giorno in un bar a pochi mesi dal suo suicidio e diventata la sua prima, unica sostenitrice: «In quegli anni difficili in cui nessuno voleva saperne delle mie fotografie». Fotografia innamorata dei corpi e dei frammenti d'anatomia, trattati come architetture della sensualità: morbosamente impegnati nella battaglia tra i sessi, tra le rivalità sportive, nel corpo a corpo della materia tessile tramata di muscoli, di ciglia, di unghie nude. Weber non fotografa il solo mo¬ dello, «penso a ciò che provo per loro, perché indossano quegli abiti, se si tratta solo di un ritratto o di loro e di tutto l'Holiday Inn»: insomma, ritrae l'odore della vita, l'atmosfera che impregna una squadra, il legame morbido e un po' perverso che si instaura tra i corpi, le cose, le idee di un luogo. Il «delitto» di sguardo: che può incarnarsi in un occhialino di tuffatore, in un cedevole calzerotto Burlinghton, dentro la lana d'un abbraccio di cocker. Atmosfera Another Country, quando si passeggia come indolenti tra gli agonismi di Oxford, i sorrisi di tweed, le ascisse viriloidi di pagaie e surf, l'equilibrio magico della scherma, gli sguardi maliardi d'una mascotte giunta inattesa a rompere le righe. Ma anche un briciolo àifree cinema, alla Morgan matto da legare: con il bambinastro tutto bicipiti e il suo scimmione, o la lotta furiosa con la camicia e le mille luci d'una collezione. E la solita dialettica: tra battaglia dei corpi, scatti animali e abbandono dei costumi. Oppure finzioni greche alla Von Glòden ed un ellenismo plastico alla Herbert List, se si veleggia pigri e assolati, dalle parti di Capri. Con un'ombra di Improvvisamente l'estate scorsa, per rimanere in tema Tennessee Williams, che Weber annovera nel suo album di famiglia. E un crepitare torbido, da romanzo di Bioy Casa- res, se i sapienti e radi accenni alla linea Versace si mescolano alle sale da ballo argentine e alle provocazioni dei guapi, tra passi accesi di tango. Bruce Weber regista di fotografia. Abbigliare l'immagine, fotografando il genius loci. «Mi sembra che fotografare sia un po' come andare in viaggio, e ho sempre sentito che sarebbe bello tenere un diario lungo il tragitto». Un diario di scatti. E quella melanconia rude, tra Auden e Isherwood, di fard, d'effimero, di bellezza da palestra che s'accende e già si muore, che già si sfoglia nella sommità meridiana del suo splendore. Con anche un poco di sfrontatezza spavalda, al limite del Kitsch: come quando Weber lascia grondare stoffe e accessori su quei marmi glabri di corpi (anche di cani: ma senza la perfidia soave di Erwitt) o quando appende al collo dei modelli piatti e tazzine della linea Home Signature, quasi fossero monili o orpelli eccessivi, quando da un coperchio di zuccheriera carico di fregi trae un sarcastico cappellino. «Non dovete mai temere di avere una vita di fantasia e mai preoccuparsi che le persone vi giudichino. Tanto loro vi giudicheranno lo stesso». Eppure l'ultimo viaggio in Vietnam, che diventerà reportage accluso a L'Uomo Vogue, sembra proprio voler rappresentare un momento di pulizia, una camera di decompressione, dopo tanto franare di lussi. Cercare l'eleganza naturale nella semplicità, nel bianco lenzuolo d'un barbiere, impaginato nella grafica comunista, nella forza quieta d'un casco. Nella magnifica stoffa nature d'un filare di pioppi. Marco Vallora «Vietnam» di Bruce Weber (Da «Uomo Vogue» I luglio 96, ed. Condé Nast)

Luoghi citati: Capri, Milano, Oxford, Vietnam