Melotti sogni appesi a fili metallici

Il maestro della scultura astratta di scena in una cascina sopra Bocca di Magra Il maestro della scultura astratta di scena in una cascina sopra Bocca di Magra Melotti: sogni appesi a fili metallici Un ingegnere poeta che purifica Calder e Giacometti AAMEGLIA L di fuori del continuo rischio di distrazione cui è soggetta la vita cultu rale nelle grandi città, esistono nelle superstiti periferie di questa Italia estiva preziose isole di mecenatismo privato di arte contemporanea, che offrono scelte raffinate, capaci di conservare il sapore e il profumo di stagioni meno frettolose e volgari della presente. Ne sono esempio i milanesi Grazia e Gianni Bolongaro, che aprono ogni anno gli spazi della loro casa estiva «La Marrana» a Montemarcello di Ameglia, sopra Bocca di Magra, a preziose piccole rassegne monografiche, la cui memoria viene affidata agli altrettanto preziosi volumetti «All'insegna del Pesce d'Oro», con cui Vanni Scheiwiller prosegue la tradizione del padre Giovanni. La mostra di quest'anno, a cura di Fabrizio d'Amico, documentata nel numero 112 della collana «Arte Moderna Italiana», è dedicata al tema II gioco di Melotti (fino al 21 luglio). Espone sedici esempi di quegli impalpabili assemblaggi di fili d'ottone e straccetti di stoffa con cui, lungo gli Anni Settanta e fino alla Sera d'estate del 1985, magica, surreale ma anche misteriosamente leopardiana, il maestro archetipico della scultura astratta italiana ha dato squisita forma ludica alla libertà di un sogno infantile paragonabile a Klee e Licini. Dopo il silenzio critico «mortale» - come lo definì il cognato Carlo Belli, fondatore dell'astrattismo italiano con «Kn» sulle Composizioni del 1934 e la poco o nulla amata esperienza monumentale al Palazzo di Giustizia di Milano, alla VII Triennale e nei bozzetti romani per l'E42, Melotti si ritrova con la moglie Lina nella Milano disperata del 1944, nello studio quasi distrutto dai bombardamenti: «Non vi si può pensare avendo nell'anima qualcosa che ti porta verso certe, non dico, disperazioni, ma le figure della disperazione, che a me non piacciono, del resto». L'ingegnere elettrotecnico Fausto Melotti diventa ceramista: «Visto che la scultura non mi dava il pane, e poi non mi piace far debiti - perché ho un'educazione all'antica, sono trentino antico, nato sotto Francesco Giuseppe, che è stato fino a tredici anni il mio imperatore - insomma, un'educazione seria per cui non si può scherzare con la morale, allora, come dicevo, per non fare debiti mi sono messo a fare delle ceramiche». Ma in quello stesso tempo tragico dal rifiuto della disperazione nascono i primi «teatrini», i primi sogni e favole di cose e figurine inscatolate in piccoli spazi scenici: «Ho sempre usato ciò che mi capita fra le mani, se ho bisogno di uno straccetto o di coso povere le ho sotto mano... e poi sono anche povero, o almeno lo ero, dovevo usare quello che trovavo». E' bene chiarire e chiarirsi sull'aggettivo, lo richiede la limpidezza mentale e linguistica di Melotti: nulla a che vedere con il materiale degradato dei dadaismi, né con l'assai futura arte povera degli Anni 70. Poveri per Melotti sono il filo d'ottone, nella sua essenzialità infinitamente malleabile a tracciare forme, segni, sogni in uno spazio mentale (lo scenario più magico ed esplicito in mostra, con astanti come fili di fumo intorno a un'idea di pesce ritagliata in una griglia metallica, si intitola Un luogo della mente) o l'aerea stoffa dipinta cìie forma corpo e velo sullo scheletro filiforme di filo di ottone nella Danza della sposa. Quando Melotti - all'inizio dei Sessanta - riapre alla grande la seconda stagione della scultura astratta, si stabilisce subito un'aura alta di equilibrio fra aristotelico e platonico, fra la logica «musicale» della geometria di ritmi circolari e angolari che riprende in una sorta di musica pura spaziale le idee-forma degli anni eroici del Milione e la libera, aerea, trasgressiva poesia ludica e scenica di questi sogni fantastici, eredi dei «teatrini», in oui fili d'oro puro mimano La pioggia, segmenti lineari e lenticolari d'ottone disegnano liberamente nello spazio un'impossibile sistema planetario illusoriamente affine alle giostre di Calder, intitolato con sottile intelligenza Finta anarchia. Questo mi sembra il punto chiave: le tangenze con gli anni surrealistici parigini di Calder e di Giacometti sono nello stesso tempo evocate ed esorcizzate dal lirismo puro e «innocente» dell'ingegnere poeta, che sul finire degli Anni 60, in pieno dibattito sulla morte dell'arte, scriveva di sé: «Un gioco che quando riesce è poesia». Marco Rosei «Sera d'estate» di Melotti, in ottone, tessuto, gesso, amianto e carta dipinta

Luoghi citati: Ameglia, Italia, Milano