La Fao lancia un allarme

La Fao lancia un allarme La Fao lancia un allarme Solo 30 specie vegetali per sfamare l'umanità UNO studio della Fao preparato per un convegno che si terrà prossimamente in Germania ha messo in luce che nel mondo esistono circa mezzo milione di specie di piante di cui solo la metà finora identificata. Tuttavia, anche se di queste 30 mila sono commestibili, soltanto 30 in pratica sfamano l'umanità fornendo i carboidrati, le proteine e le calorie necessarie. Inoltre grano, riso e mais da soli assicurano più della metà del cibo consumato dall'uomo. Queste sono anche le colture che hanno ricevuto le maggiori attenzioni di conservazione e di miglioramento. L'uniformità di specie, su cui si basa l'alimentazione umana, rappresenta un grosso rischio. Il documento della Fao sottolinea come sia la diversità genetica il fattore essenziale per continuare a sfamare l'umanità nei prossimi secoli. L'agricoltura moderna utilizza troppo poche specie in modo molto intensivo; finora i risultati conseguiti nel miglioramento genetico di queste specie sono stati eccellenti, avendo permesso di sfamare larga parte della popolazione mondiale in continuo aumento. Ma occorre considerare che nel 2025 saremo oltre 8 miliardi con un aumento rispetto alla popolazione attuale del 40 per cento, per cui è necessario un aumento della produzione agraria mondiale superiore al 70 per cento. Questo difficile compito richiede che l'uomo conservi ciò che non è ancora andato perso della diversità genetica delle piante che - come ha affermato Jacques Diouf, direttore gene¬ rale della Fao - è un contributo alla sicurezza alimentare ed un sollievo alla povertà. La diversità genetica è costituita dalla variabilità degli organismi viventi, dall'ambiente in cui vivono e dalle informazioni genetiche che ognuno di essi reca. In alcuni sistemi naturali la diversità biologica è altissima, in altri è meno elevata: ad esempio la foresta boreale di conifere è molto più uniforme, cioè meno diversa di quella tropicale. Sono però i sistemi antropici (cioè quelli creati dall'uomo) che presentano i valori più bassi di diversità. In passato si è spesso rischiato, e talvolta è accaduto, di eliminare qualsiasi traccia di variabilità genetica nelle colture agrarie. Tristemente esemplare è il caso del riso: delle quasi 10 mila varietà di riso presenti in Cina nel 1949, nel 1970 non ne rimanevano più di mille; in Malaysia, Filippine e Thailandia si stanno rimpiazzando le varietà di riso locale. Inoltre, nonostante nel mondo si producano 552 milioni di tonnellate di riso ed esso sia coltivato su di un area di 150 milioni di ettari, tutto il materiale genetico deriva da due sole specie di riso: Oryza sativa indica e japonica e Oryza glaberrima. Anche negli Usa l'erosione genetica ha fatto le sue vittime: si è perso il 95% delle varietà di cavolo, il 91 % di quelle di mais, il 94% delle varietà di pisello, l'81% di quelle di pomodoro. In Cile si sono perdute varietà locali di patata, di avena, di orzo, di lenticchie, cocomero e grano; mentre in Uruguay sono state sostituite molte specie di ortaggi e di grano. I pascolamenti eccessivi, la distruzione delle foreste e della brughiera hanno causato l'erosione della diversità genetica dell'Africa e dell'Asia. La mancanza di variabilità genetica è estremamente pericolosa dal punto di vista fitopatologico in quanto può provocare enormi danni sia sulle colture agrarie, sia su quelle forestali. Si può citare il caso dell'unica specie di pino con cui sono state rimboschite le colline alle spalle di Sanremo, che sta provocando la scomparsa di intere pinete in quanto l'unica specie di pino usata è estremamente suscettibile a un insetto, una cocciniglia che provoca la morte delle piante. Un caso opposto riferito alla nostra agricoltura è costituito dalla fortunata minore suscettibilità di numerosi vitigni italiani rispetto a quelli francesi, come lo Chardonnay, a una malattia denominata flavescenza dorata causata da un fitoplasma (parassita con caratteristiche intermedie tra i virus e i batteri). Questa malattia sta danneggiando gravemente anche in Italia lo Chardonnay rispettando fortunatamente altri vitigni. Se la viticoltura italiana fosse costituita solo da un vitigno sensibile sarebbe una tragedia per l'economia vitivinicola del nostro Paese. Elena Accati Università di Torino Quel verme che vive cinque volte IL mito dell'eterna giovinezza si incontra spesso nella letteratura; ma anche la scienza è alla ricerca dell'elisir di lunga vita. E questa volta l'ha scoperto nel Dna del Caenorabditis elegans, un piccolo verme nematode, uno degli esseri viventi meglio conosciuti dalla biologia. Modello di studio ideale fin dal 1963, quando Sidney Brenner decise di analizzarlo, C. eìegans è lungo appena un millimetro e completamente trasparente, per questo le circa mille cellule che lo compongono possono essere facilmente individuate al microscopio ed esaminate. Il piccolo nematode inoltre possiede una struttura analoga a quella degli animali più evoluti: ha una testa ed una coda, un sistema muscolare, e un sistema nervoso perfettamente conosciuto di 302 cellule (contro i 100 miliardi di cellule che compongono quello umano!). Non sorprende quindi che, da quando Brenner iniziò a studiarlo, su di lui si sia concentrata la ricerca di molti altri scienziati, e le scoperte, soprattutto nei campi della biologia cellulare e della neurobiologia, non sono mancate. L'ultima, apparsa sul numero di Science del 17 maggio scorso, arriva dal Canada, dove due ricercatori, Siegfrid Hekimi e Bernard Lakowski, sono riusciti a prolungare il ciclo vitale di questo animaletto di oltre cinque volte: non si era mai visto un tale incremento nella durata della vita di un essere vivente. E' come se un uomo, la cui età media è di circa 75 anni, arrivasse tranquillamente ai 400. Come ci sono riusciti? Il segreto della longevità, almeno per C. elegans, sembra essere la vita pacata, senza fretta, un po' alla moviola. Una vita i cui ritmi sono scanditi da alcune mutazioni che i due ricercatori canadesi sono riusciti ad ottenere, manipolando il Dna del nematode. Il Dna è una lunga molecola, suddivisa in segmenti chiamati geni, presente nelle cellule di tutti gli esseri viventi, e nella cui struttura sono racchiuse le informazioni che, interagendo con i fattori ambientali, determinano le caratteristiche di ogni individuo. Sul Dna di C. elegans Hekimi e Lakowski hanno scoperto una serie di geni, che hanno chiamato clk (da clock, che in inglese vuol dire orologio) e la cui mutazione provoca il rallentamento dei ritmi di vita del vermetto, che nuota più lentamente, mangia e digerisce adagio... e vive cinque volte di più dei suoi simili. Sembra quindi che i geni clk regolino una sorta di orologio interno, che determina la velocità alla quale il piccolo nematode vive la sua vita. «Fenomenale!» è stato il commento di Judith Campisi dell'Università di Berkeley in California, esperta di studi sull'invecchiamento. Ma ciò che maggiormente colpisce gli scienziati in questa scoperta è il numero esiguo di geni coinvolti nella regolazione dell'orologio interno; appena quattro. Questa circostanza è in forte disaccordo con le teorie che, fino ad oggi, ipotizzavano che nei processi di invecchiamento dovesse essere coinvolto un numero di geni molto elevato. E' tuttavia improbabile che i geni clk da soli siano responsabili di un fenomeno così complesso, e, più verosimilmente, potrebbero agire come dei regolatori in grado di modulare l'attività di molti altri geni. Non è la prima volta che C. elegans ci sorprende con i suoi ritmi di vita: tre anni fa un gruppo americano aveva scoperto una mutazione che gli consentiva di vivere il doppio rispetto ai suoi simili. Quella volta però il gene mutato influiva sullo stadio di larva, ed era solo questo che veniva prolungato, mentre la fase adulta restava pressoché normale. I geni clk invece influenzano tutto il ciclo vitale, rallentando complessivamente il metabolismo attraverso un meccanismo che, per il momento, resta ignoto. Anche se la tentazione di estrapolare questa scoperta all'uomo è forte, prima di poterlo fare si devono trovare dei geni analoghi ai clk anche in altri sistemi viventi. Il gruppo canadese sembra essere vicino alla meta, ed ha già scoperto un gene potenzialmente equivalente nel lievito. Ma, se per l'uomo la strada è ancora lunga, i piccoli nematodi mutanti sembrano aver imparato bene la lezione: almeno per loro, chi va piano va sano e va lontano. Molto lontano. Margherita Fronte

Persone citate: Bernard Lakowski, Brenner, Elena Accati, Jacques Diouf, Judith Campisi, Margherita Fronte, Sidney Brenner