DERISI DALLA PIZIA di Giovanni Tesio

DERISI DALLA PIZIA DERISI DALLA PIZIA Nella «Doppia voce» del Nobel Golding un'indovina imbroglia ipellegrini LA DOPPIA VOCE William Golding trad. Mario Biondi Corbaccio pp. 198 L 25.000 A destra Wiliam Golding: il suo romanzo postumo «La doppia voce» esce dal Corbaccio N vecchiaia molti innamorati della letteratura ritornano alle origini, ossia ai classici, e così è stato anche per Sir William Golding, che a sette anni si era messo a studiare da solo i geroglifici per scrivere una commedia ambientata nell'antico Egitto. Pur avendo visitato più volte il passato nella sua narrativa - il suo romanzo migliore è probabilmente La spira, sulla costruzione della cattedrale gotica di Salisbury; più recentemente, Riti di passaggio inaugurò una trilogia ambientata su di una nave passeggeri diretta in Australia, nel Settecento - Golding non aspirò mai a ricreare l'atmosfera o il clima di tempi lontani con intenzioni realistiche, a lui essendo sempre interessato di più presentare uomini in preda a tensioni estreme, casi-limite di dimensioni quasi mitiche. Negli ultimi anni della sua vita (nato nel 1911, è morto nel '93) si era tuttavia dedicato a peregrinazioni per i mari della Grecia - era un appassionato di navigazione - e a rivisitare quegli scrittori, i più grandi di tutti, come amava ripetere. Da questo risveglio di passione doveva nascere, ora apprendiamo, anzi fino a un certo punto è nato, il libro ora tradotto da Mario Biondi: del quale, ci spiegano, l'autore aveva completato due versioni e si accingeva a metter mano alla terza. Da appunti rimasti si presume che questa sarebbe stata più lunga, ma anche che l'insieme non sarebbe stato molto dissimile da quello che c'è. C'era bisogno di altro per la vedova e per l'editore di un premio Nobel? Non che rimpiangeremo l'offerta di questo lavoro in corso, lo sguardo nell'officina di un autore è sempre istruttivo; e Golding a quanto pare arrivava a ottenere il risultato che desiderava solo dopo molti sforzi - non per nulla II signore delle mosche con cui si rivelò fu preceduto da molti manoscritti respinti al mittente. Ancora più istruttivo sarebbe stato comunque vedere se e come lo scrittore sarebbe riuscito a ottenere un romanzo da questo materiale. Così com'è, abbiamo le reminiscenze, raccontate in prima persona, di una Pizia: ossia, di una anziana donna greca che fu messa giovinetta nel santuario di Delfi (l'epoca è il primo secolo a.C.) con l'incarico di mantenersi vergine e di imbrogliare pellegrini di ogni rango dando ai loro quesiti ambigue risposte prefabbricate. Ci vengono raccontate in breve le premesse, ossia l'infanzia e l'adolescenza di questa ragazza bruttina e quindi poco corteggiata, nonché vittima innocente di un piccolo scandalo di paese, che convince suo padre a venderla all'emissario del santuario; seguono l'indottrinamento della fanciulla, il suo debutto, la sua carriera. Il risvolto è che non si sa se stordita da qualche droga o dall'aura del posto, la giovane Pizia cade spesso in autentiche trance, ha visioni sia pure confuse, balbetta responsi che in qualche modo vengono dal dio; e il suo maestro talvolta asseconda, talaltra censura le sue rivelazioni, che peraltro non sembrerebbero mai poter cambiare le cose. Qualche volta si presenta un personaggio noto, per esempio vengono due giovani romani, Metello Cimbro e Giulio Cesare, a chiedere quale dei due farà più carriera. Ma la maggior parte del tempo è routine, folle sudate e eccitate, pressioni politiche per addomesticare verdetti. Per evitare una pedestre ricostruzione archeologica, Golding impiega ironicamente neologismi, chiama First Lady la Pizia e ricorre a qualche termine ebraico corrente nell'umorismo americano moderno. Quello che lo separa da similari escursioni nell'antichità per esempio di Robert Graves (alcune delle quali stanno venendo ripubblicate, e con successo) non è però lo sfog- Un romanzo postumo (in realtà tutto da scrivere) dell'autore di «Il signore delle mosche» gio di disinvoltura stilistica, bensì, purtroppo, la mancanza di una storia da raccontare. Il diario di questa Pizia non contiene rivelazioni, ma non contiene nemmeno episodi appassionanti, o almeno curiosi; sono al massimo chiacchiere di retrobottega, con qualche particolare vagamente suggestivo, ma complessivamente inerti. Abbiamo insomma un contesto, un paesaggio; ma mancano le figure a cui appassionarci. Il romanzo postumo di Golding era ancora tutto da scrivere. Masolino d'Amico COME SONO BIGI I GATTI DELL'EST LA PRESENZA DEI GATTI Wolfgang Hilbig traduzione Agnese Grieco // Saggiatore pp. 97 L. /6.000 LA PRESENZA DEI GATTI Wolfgang Hilbig traduzione Agnese Grieco // Saggiatore pp. 97 L. /6.000 ELLE pagme di Wolfgang Hilbig tira aria inquinata: c'è odore di zolfo, di carbone, e a guardarsi intorno si viene colti da rapido scoramento. Fabbriche in disuso, mucchi di lignite, cantine e sottotetti, umidità e grigiore: ecco il suo labirinto, il dagherrotipo sbiadito di qualche contrada dell'ex Germania comunista fra Lipsia e Berlino, il suo impietrito inferno urbano. Proprio là, in una zona mineraria della Sassonia, Hilbig è nato nel luglio del 1941. Poche scuole, un nonno analfabeta che gli ha impartito i sacramenti della vita, lunghi periodi di lavoro nell'industria, un veloce apprendistato come scrittore. Nella testa e negli occhi il socialismo reale, nell'immaginazione sempre più spesso labirinti e carceri d'invenzione. Ad Est fa il fuochista e a Ovest pubblica prose e poesie sparse. Non ha vocazione per l'ubbidienza; manda messaggi inquietanti e lo fa da una tribuna sospetta. Gli toccherà stare un po' al fresco e forse lì comincia a interrogarsi sulla gran QUEST'INDIA, PIÙ' CRUNA CHE CUNA massa di verità fasulle che circolano in ogni ideologia. Nella ex Rdt Hilbig c'è cresciuto: ecco perché le immagini che ci consegna sono importanti. Poi se n'è andato nel 1985, tornando a più riprese. Per questo ci sta a cuore quello che dice: ha visto la propria patria da una distanza problematica. Ha parlato di assenza (è il titolo della sua prima raccolta di poesie), di ristagno coatto, di progressivo svuotamento di realtà. E tutto sembra ricondurre ai suoi paesaggi visionari, alla desolata archeologia della modernità d'oltr'Elba, allo sbriciolamento di una obsoleta realtà tecnica. C'è un nesso profondo tra le icone di questo mondo di rottami e la dittatura del linguaggio (l'affermazione è sua), che ha dominato i rituali espressivi di un Paese ormai alla deriva. Per cogliere il modo raffinato con cui questo scrittore-proletario ha messo a fuoco la distanza fra linguaggio e realtà, ne ha catturato ambiguità e lacune, bisognerebbe leggere il romanzo Ich (Io), che nel 1993 lo ha reso famoso. E' l'epica della svolta, il bilancio di un'esperienza paranoica e grottesca colta dall'osservatorio di un informatore della pohzia segreta. Ma per un primo assaggio può anche bastare la breve raccolta di racconti La presenza dei gatti. Peccato che non si sia colta l'occasione per offrire al lettore italiano un numero più consistente di testi (penso a Verde, verde tomba del 1993 dove si confrontano le contraddizioni prima e dopo l'unificazione). Comunque qui tra i gatti del primo racconto, c'è già tutto l'orizzonte di Hilbig, quella sorta di terreno paludoso e acherontico in cui affondano i piedi soggetti marginali e precari. Hilbig ha una penna grottesca e ironica, con tratti di sommessa malinconia. Non è un vero epico; il suo respiro è corto, il suo occhio troppo schiacciato sui particolari per ingarbugliare storie e vicende. Certo alla fine nessuno più dimenticherà la vecchia signora Mùller rintanata in un edificio fatiscente con il suo esercito di felini flemmatici e sonnacchiosi, un impasto di vita grigia di fronte a cui persino il tempo sembra arrestarsi. E accanto a loro una piccola e smunta colonia di artisti perdigiorno: un vero sacrilegio verso l'etica del lavoro. Una colonia di resistenti, di giovani contro, di abulici creativi. Su di loro, come su quei gatti indifferenti e sbiaditi, s'abbatte un'ondata di tempo e cancella le orme del dolore, consegna alle ombre del passato ogni fantasia. All'esterno resta, anche dopo la svolta, una galleria di relitti immersi nel buio. Un po' come nella strada dell'ultimo (e quarto) racconto, Nella Schillerstrasse, dove gli abitanti sono «morti viventi (...), ombre scaturite dal ventre della terra», e il percorso del narratore, tra le sbavature della nebbia, si spinge fino all'invisibile, al presentimento di una sventura che incombe. Tra un passato di impalpabili presenze che lambiscono appena il terreno della strada e un oggi dove tutto perisce, c'è mi leggero brivido di morte. Il pensiero ecologico di Hilbig affonda in un pessimismo troppo compatto per lasciare qualche speranza sull'asfalto che ha ripulito di ogni ricordo la lattiginosa Schillerstrasse. Hilbig ricostruisce memorie di luoghi senza storia, al margine di ogni umana peripezia. Come fossero esseri viventi. Densi, oscuri o immersi in pulviscoli di nebbia. Acquattati in paesaggi vaporosi, come ne I territori dell'anima dove l'anonimo protagonista scompare in uno specchio, tra il gran clamore urbano, come in una pianura infinita e grigia. S'addentra da solo in un abisso che l'andirivieni della massa non scoprirà mai. Quasi un annun ciò di imminente felicità. Certo si dovrebbe pretendere che cambi il mondo, pensa l'operaio C. in II la voro ai forni, non continuare ad in terpretarlo, come più aggrada a chi sta in alto. E invece, guarda un po', cambia solo il colore della neve, che scende nera tra funi e fuliggini, e s'allarga sulla campagna come una iattura. Luigi Forte ULTIMA INDIA Sandra Petrignani Baldini & Castoldi pp. 166 20.000 ULTIMA INDIA Sandra Petrignani Baldini & Castoldi pp. 166 20.000 A prima parola che compare nel volumetto di Sandra Petrignani, Ultima India, è Ajjappam: il nome di un autista che ha il sorriso degli «allegri-dentro», la semplice espressione di un'armonia che scaturisce limpida e nativa. Lei, l'io narrante, racconta di una lontana chiamata che risale al tempo in cui, dodicenne, l'India le parlò per bocca di Kim. Ma soprattutto racconta di una doppia interrogazione legata al filo di un viaggio da «ultima spiaggia». Che cosa resta di un'India che - da Friedrich von Schlegel a Jung a Hesse - fu già culla o cuna di saggezza? Quanto della fascinazione antica, come in Gozzano, di favolose e libresche Golconde? Più cruna che cuna, 1'«ultima India» patisce gli assalti del capitalismo globale andando di conserva con i voli charter del turismo più voyeuristico e promiscuo. Non peggio del viaggio virtuoso di chi va in pellegrinaggio con la sicurezza della rivelazione, del miracolo che - sempre che il guru sia in sede - non può non compiersi nell'arco di una vacanza brevissima. Manganelli, Moravia, Pasolini, Tabucchi, il suo passaggio in India si nutre di cose viste e di persone incontrate. Ricognizioni, colloqui, insegnamenti, cedimenti, attese, impressioni, sensazioni, rim Per fortuna il reportage della Petrignani si tiene lontano dal doppio pericolo della recriminazione snobistica e dell'entusiasmo iniziatico. Le domande fondamentali che fanno da filo rosso sono giusto due: che senso ha l'andare se il centro è dappertutto? Che rapporto c'è tra questo andare e la ricerca del Tutto, dell'Assoluto? Domande che si chiudono simmetricamente con altrettante risposte aperte, il cui senso forse non rassicura ma certo conforta. Imparare che il centro siamo noi e che gli dei possono esserci o no, ma che sempre ci tocca fare «del nostro meglio» come se ci fossero. La Petrignani non rinuncia al resoconto di un viaggio nei luoghi: Cochin, Sarnath, Benares-Varanasi, Matangesvara, Guruvayur, la città-utopia di Auro vili e. Sulla scorta di una biblioteca abbastanza nutrita e dichiarata, da Kipling a Giorgio de Santillana, ma anche di Manganelli, Moravia, Pasolini, Tabucchi, il suo passaggio in India si nutre di cose viste e di persone incontrate. Ricognizioni, colloqui, insegnamenti, cedimenti, attese, impressioni, sensazioni, rimpianti, immagini terribili e lievi. Il suo percorso interiore risulta tanto più credibile e sincero, anche perché non nasconde dubbi e difficoltà. Ultima India è un invito alla levità e alla dolcezza, alla bontà e al sorriso. Sensualità senza oggetto, attesa senza desiderio, amore senza possesso, la felicità è senza tremiti e si spiega come espressione di un dovere vissuto con allegria. Per dare l'idea della «terrestre celestialità» di una lezione indelebile, basterebbe pensare all'episodio tremendo del cane che mangia un altro cane identico a lui, o per contrasto a quello finale della bellissima bambina di Benares che sprigiona il suo «sorriso di luce» di fronte al gratuito dono di un bacio Perugina. Bisognava andare lontano per imparare la dolcezza infinita di quel sorriso che dice il Tutto; che li dice tutti. Giovanni Tesio o e à a a i n el e a a idi n na ie o