Cosi il computer cambia il nostro modo di scrivere

IL CLASSICO IL CLASSICO di Alessandro Fo I N mancanza di prime pagine e I vignettisti, la satira restava per gli antichi affidata ai poeti: e bisogna riconoscere che ultimamente si registra una discreta fortuna delle voci più aspre e risentite della satira romana, quelle di Persio (34-62) e di Giovenale (circa 60-dopo il 127). Affratellati dal genere e anche in parte dai toni, i due poeti appaiono spesso sotto la stessa copertina, come avviene ora in uno sfolgorante «diamante» della editrice Salerno, a cura di Luciano Paolicchi, introduzione di Paolo Fedeli, dotato di appendice delle Vite antiche dei due scrittori (874 pp., L 38.000). Fra le edizioni separate va segnalato che il «repertorio» di Giovenale si è appena arricchito di una sapida traduzione di Mario Ramous nei «grandi Libri» Garzanti (pp. 478, L 19.000) LA videoscrittura e gli ipertesti sono mezzi di espressione particolari: creano una realtà artificiale, un micromondo in cui viene simulato il foglio di carta e la macchina da scrivere. Questa simulazione però consente azioni che ci rendono più «potenti» di quanto non saremmo con la macchina da scrivere. Nel caso degli ipertesti, poi, la possibilità per l'utente di seguire percorsi diversi fa sì che il testo risulti dalla lettura più che dalla scrittura. La linguistica testuale ci aveva già abituato a considerare la coerenza di un testo non una proprietà del testo in sé, ma il risultato dell'interazione fra testo e volontà di trovare senso da parte di chi interpreta il testo. Con l'ipertesto l'autore prevede dei percorsi, ma è il lettore che assembla il proprio testo. consistenti sui quali i cambiamenti lasciano traccia. Le tecnologie informatiche neutralizzano le particolarità lo L'universo dell'elettronica mette in discussione la distinzione fra artificiale e naturale. Il soggetto perde la coscienza di essere distinto dal mondo in cui si immedesima artificialmente, invece dovrebbe restare in grado di percepirsi. Il cursore rappresenta la nostra proiezione nel mondo artificiale del foglio di carta elettronico e noi possiamo (dobbiamo!) controllare la nostra proiezione tramite la tastiera e il mouse. Il medium elettronico smaterializza il testo, lo riduce a flussi e scorrimenti, apparizioni e sparizioni durante le quali le correzioni si perdono, se non vengono «salvate», memorizzate in qualche file. La storicità del documento, cardine delle discipline storiche e filologiche, è ancorata a supporti cartacei, a materiali consistenti sui quali i cambiamenti lasciano traccia. Le tecnologie informatiche neutralizzano le particolarità locali, tolgono profondità al testo, pongono uno scarto tra la tradizione (= trasmissione) della civiltà del passato e il presente. Queste riflessioni un po' inquietanti per chi sta vivendo questo scarto in modo consapevole, provengono dal saggio di Mario Ricciardi, pubblicato nel libro da lui curato Scrivere comunicare apprendere con le nuove tecnologie (Bollati Boringhieri, pp. 167, L. 26.000), seguito da Lingua, letteratura, computer (sempre da Bollati Boringhieri, pp.194, L. 28.000). Ricciardi affronta la questione «dall'alto», Alessio Petralli l'attacca dal punto di vista degli effetti sul lessico della lingua italiana, nel libro Neologismi e nuovi media (Clueb, pp. 125, L. 20.000) Petralli analizza come l'italiano e le lingue europee ri¬ serva e potenzia i tratti creativi e ludici del Lego fisico, comune gioco dell'infanzia di tutti. Siamo, qui, all'evidente allegoria del passaggio dal mondo fisico (gli atomi) al mondo digitale (i bit). Ma questa vicenda esemplare non è che la superficie del romanzo di Coupland. A tutti gli effetti, è un romanzo che non teme di affrontare ancora una volta le grandi questioni della vita e della morte, della salute e della malattia, dell'amore, dell'amicizia, dei progetti, delle vittorie e delle sconfitte, quello che Coupland fa è costruire un micromondo in vitro e, schermato così dall'understatement e dall'ironia prodotti dall'asetticità dell'esperimento, rilanciare i temi delle grandi narrazioni, ribadendo quindi l'atto di fede nella potenza del romanzo, nella flessibilità della sua strumentazione. Ed è per questo motivo che chiunque può farsi sedurre dalle quattrocento pagine del libro anche se sono zeppe di Windows, nerd, objectoriented, debugger, Bill, codici a barre, giornate random, e gente che ti dice «oggi ho potenziato l'emisfero destro del cervello». Perché non sono microservi, ma liberi microcittadini. Dario Voltolini flettano il fenomeno della globalizzazione multimediale e oltre ai mezzi soliti di documentazione (note, riferimenti bibliografici) ingloba nel libro alcuni dei messaggi di posta elettronica attraverso i quali ha ottenuto «dalla rete» informazioni utili per la sua ricerca. Perfino la postfazione di Padre Roberto Busa, pioniere dell'elaborazione elettronica di testi, è arrivata per posta elettronica. Padre Busa è ottimista, forse perché è un uomo di fede. Ritiene che le prestazioni dell'informatica non potranno fare né più male né più bene di quanto non ce ne abbia già fatto la televisione e personalizza così la traduzione di un passo della Bibbia: «la spinta che il Creatore e Programmatore ha dato corre da un capo all'altro del mondo e tiene tutto assieme, tutto, anche ogni nostra singola parola». Nella pratica quotidiana il popolo degli utilizzatori giovani del computer sembra approfittare della praticità della videoscrittura senza porsi problemi filosofici ma, ahimè, anche senza impiegare il tempo libero dalle ricopiature a migliorare la precisione del proprio lessico, l'efficacia dei collegamenti, la correttezza e scorrevolezza della sintassi. All'università e nelle scuole secondarie si producono tesi e ricerche più lunghe, apparentemente ben strutturate in paragrafi e titoli, perché le possibilità della videoscrittura invitano tutti a curare la composizione ((tipografica» della pagina. Però mentre in tempi di macchina da scrivere una buona veste del testo garantiva anche un contenuto ordinato, adesso pagine impeccabili veicolano sovente testi prolissi, ripetitivi, coesi al massimo per 15-20 righe, quelle che stanno «insieme» sullo schermo. In attesa di schermi più grandi si può osservare che la videoscrittura, le reti informatiche, le banche di dati giovano soprattutto al contorno del testo e alla preparazione e confezione di scritti scientifici, al raffinamento delle tecniche di catalogazione e di ritrovamento di informazioni, alla correttezza ortografica (tramite correttore automatico), ma non alla scrittura letteraria, allo stile. Perfino Eco, uno dei più informatizzati fra i nostri scrittori, sentenzia «il bello del computer è che incoraggia la spontaneità: scrivi di getto, in fretta, quello che ti viene in mente. Poi, intanto, sai che puoi correggere e variare». L'ha detto rispondendo a Maria Teresa Serafini, nel libro da lei curato Come si scrive un romanzo (Bompiani, pp. 213, L. 20.000). Il bello del computer però può diventare il brutto quando non si ha niente da dire e non si ha la pazienza di rileggersi e correggersi. Forse ci sarebbe bisogno, oltre che di schermi più grandi, di un'icona con la lima, a fianco di quella con le forbici. Caria Marcilo

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