«Serbi, ridatemi mio figlio» La disperata ricerca di una madre di Vukovar

«Serbi, ridatemi mio figlio» «Serbi, ridatemi mio figlio» La disperata ricerca di un madre di Vukovar \ SZAGABRIA ONO sicura che è vivo, ma devono dirmi dov'è. Devono ridarmi mio figlio». Gli occhi azzurri velati dalle lacrime, il viso segnato dal dolore, Anuska Fitus continua a sperare. Dopo quattro anni e mezzo dalla scomparsa del figlio Karlo, che oggi avrebbe 32 anni, è decisa più che mai a scoprire la verità. «Il mio ragazzo è stato portato via dall'ospedale di Vukovar il 20 novembre del 1991. Era ferito. Davanti ai miei occhi l'hanno caricato su un autobus con decine di altre persone. Volevo raggiungerlo, ma sono stata fermata dal colonello Sljivancanin. L'alto ufficiale dell'esercito jugoslavo mi ha presa per un braccio: non deve preoccuparsi, suo figlio sarà di ritorno tra un'ora, ha detto». Il pallido viso di Karlo dietro il finestrino sporco dell'auto- bus è l'ultima immagine del figlio che Anuska ricorda. Da quel giorno non ha più saputo nulla di lui. Karlo Fitus è uno dei duemila prigionieri di Vukovar, tra cui centinaia di feriti ricoverati all'ospedale, spariti dopo la caduta della città croata della Slavonia orientale. Moltissimi sono stati uccisi sul posto e gettati nelle fosse comuni, ma altri sono stati portati via dai soldati jugoslavi e dalle milizie serbe che dopo tre mesi di feroce assedio hanno raso al suolo Vukovar. Nel frattempo il Tribunale internazionale dell'Aia ha accusato di crimini di guerra il colonnello Sljivancanin e altri due ufficiali dell'esercito di Belgrado che hanno partecipato all'eccidio di Vukovar. «Non mi interessa se Sljivancanin e gli altri finiranno davanti alla corte, se saranno condannati. L'unica cosa che voglio sapere è dov'è mio figlio». Nella minuscola stanza dell'albergo di Zagabria, dove dall'inizio del '92 vive con altri 500 profughi di Vukovar, Anuska Fitus racconta il dramma di quei giorni in cui «si è fermata la sua vita». Sulle sue ginocchia un album di vecchie fotografie sbiadite, tutto quello che rimane del passato. Ha fatto ingrandire un ritratto a colori di Karlo, giovane e sorridente. Di nazionalità ungherese, natia della vicina Vojvodina, Anuska si è sposata con un artigiano calzolaio di Vukovar nel 1958. «Anche mio marito era ungherese, ma a Vukovar vivevamo tutti insieme: croati, serbi, cechi, ucraini e tedeschi. Mio marito era molto amato tra i suoi colleghi in fabbrica. Quando la guerra è cominciata, continuava a dire: vedrai, non ci toccherà nessuno. Siamo rimasti nella nostra casa. Ci hanno bombardato ininterrottamente per tre mesi. Mio marito è stato ucciso due giorni prima della caduta di Vukovar. E' arso vivo davanti ai miei occhi nell'esplosione di una bomba al napalm che ha colpito il nostro rifugio. Quattro giorni dopo mi hanno portato via Karlo». Da allora Anuska porta il lutto. «Mi comprerò qualcosa di colorato quando ritroverò mio figlio». Pochi giorni dopo che è stata sfollata da Vukovar ha cominciato a cercarlo. Prima attraverso la Croce Rossa, ma poi è andata lei stessa in Serbia dove è riuscita a visitare alcuni campi di prigionia. «Ho bussato a tutte le porte. Io, piccola casalinga di Vukovar che da sempre si è occupata solo della sua famiglia, ho scoperto che esistono i diritti dell'uomo. Sono stata dal Papa, da Boutros Ghali, dalla Thatcher. E' stato tutto inutile. Ma continuerò a cercare aiu¬ to. Voglio andare da Milosevic perché soltanto lui può rispondere alla domanda che cos'hanno fatto con i nostri figli». «E se Karlo fosse morto? Voglio sapere dove sono le sue spoglie. E' diritto di ogni madre potersi inginocchiare e pregare davanti alla tomba di suo figlio». Per ora Anuska accende ogni sera una candela sul davanzale della sua finestra d'albergo. Ingrid Badurina A giudizio all'Aia tre ufficiali dell'esercito jugoslavo: di 2 mila giovani rastrellati nel '91 non si è saputo più nulla \ DESAPARECIDOS IN SLAVONIA

Luoghi citati: Belgrado, Serbia, Zagabria