L'America brinda ai cent'anni del «New York Times» Partito con novemila copie, oggi ne vende un milione, nonostante la crisi della stampa di Paolo Passarini

L'America brinda ai cent'anni del «New York Times» E' stato il party del secolo: le porte del Metropolitan Museum si sono aperte a 500 invitati L'America brinda ai cent'anni del «New York Times» Partito con novemila copie, oggi ne vende un milione, nonostante la crisi della stampa WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Cent'anni. Il New York Times, considerato da molti il giornale per antonomasia, è diventato centenario e la festa di compleanno si è svolta l'altra sera nel posto probabilmente più solenne di Manhattan, il Metropolitan Museum. Come è giusto. Nessuno degli invitati poteva mancare, mentre c'erano ovviamente moltissimi non invitati che avrebbero dato un braccio per far parte di quella fila di 500 persone in abito da sera, accolte da Arthur Sulzberger all'entrata del salone in cui campeggia il tempio di Dendur, l'unico tempio egizio completo che esiste nell'emisfero occidentale. Come ha detto una mondanissima partecipante: «Questo è uno dei quattro party più importanti di questo secolo, ma non ricordo gli altri tre». C'erano attori, politici, architetti, finanzieri, industriali, artisti, divi della tv e del cinema, oltre, come è ovvio, a numerosissimi giornalisti. Dan Rather, Barbara Walters, Ted Koppel e Peter Jennings si mescolavano con architetti come I. M. Pei e scrittori come E. L. Doctorow. Dozzine di tavoli erano stati ricoperti con tovaglie sulle quali erano state stampate vecchie prime pagine del giornale. Sulle pareti venivano proiettate immagini di titoli importanti degli ultimi cent'anni, come «Condannati a morte Sacco e Vanzetti». Sullo sfondo, cento violi¬ ni - «Un vero tocco di classe», ha commentato la direttrice del New Yorker Tina Brown - infilavano le note di Sui marciapiedi di New York. Arthur Sulzberger, attuale proprietario del giornale e nipote del vero festeggiato della serata, Adolph Ochs, ha sottolineato che quella in corso lì al Met non era soltanto una celebrazione: «E' anche una riaffermazione - ha detto -. Ci ricorda il nostro passato e ci indica il nostro futuro». Il futuro della carta stampata non appare roseo neppure negli Stati Uniti: la diffusione conti- nua a restringersi, gli introiti pubblicitari a calare e i lettori giovani a scomparire. Anche il colosso New York Times, con la sua diffusione di circa un milione di copie, ne risente e nei mesi scorsi ha dovuto procedere a tagli e licenziamenti. Ma è pur sempre il New York Times. Per la verità, la festa dell'altra sera al Met e le quattro mostre che si tengono contemporaneamente in quattro musei e librerie della città non celebrano esattamente il centenario del New York Times, che allora esisteva già. Era un giornaletto con una tiratura di 9 mila copie che stava andando in bancarotta, con 350 mila dollari di debili e 2500 dollari di perdite settimanali. Ma fu proprio cent'anni fa che un geniale immigrato dall'Europa, Adolph Ochs, già proprietario del Chattanooga Times, decise di fare un pazzia. Mandò un telegramma alla moglie Effie, con le parole: «Il New York Times è in vendita». «Anche il ponte di Brooklyn», gli rispose lei. Ma nessuno comprò mai il ponte di Brooklyn, mentre Ochs riuscì, facendo un mucchio di debiti, a mettere insieme i 75 mila dollari che erano necessari per l'acquisto. Aveva in testa un'idea l'issa, chiara e precisa: «Voglio fare un quotidiano di alto livello, che sia un modello di equilibrio, pulizia, indipendenza e spirito d'iniziativa», prometteva ai finanziatori. Era sincero. Un anno dopo il Times aveva già raddoppiato le copie e nel 1935, quando Ochs morì, la diffusione era già salita a 435 mila copie. Ochs aveva uno slogan, che è ancora il motto del giornale: «Dare le notizie imparzialmente, senza paura e senza favoritismi». Vi furono alcune cadute, come nella sottovalutazione del fenomeno nazista prima e alcune corrispondenze filo-staliniste poi. Ma furono cadute, appunto, che non uccisero la regola di fondo, e ancora oggi il Times, uno dei pochi grandi giornali di famiglia rimasti, incute soggezione e rispetto. Paolo Passarini La storica sede del «New York Times»

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