Il paradosso storico, sociale ed economico di un Paese divenuto vittima della sua opulenza E la fiera Germania fuggì in Europa

Il paradosso storico, sociale ed economico di un Paese divenuto vittima della sua opulenza Il paradosso storico, sociale ed economico di un Paese divenuto vittima della sua opulenza E la fiera Germania fuggì in Europa L'industria va in esilio dall'ex mecca degli emigranti LBRUXELLES ASCIO la Renania, culla del «modello renano» divenuto poi per estensione semantica e geografica «modello tedesco», e mi sposto per una sosta conoscitiva nella vicina Bruxelles. L'Europa, Maastricht, l'unione monetaria e politica, hanno il loro peso nei comportamenti della Germania in difficoltà con se stessa e con gli altri soci della Comunità europea. Incontro a Bruxelles due vecchi amici ed ex colleghi eurodeputati; cerco di farmi spiegare da loro, in un'ottica comunitaria, la natura del misterioso virus fermentato nell'adipe del miracolo tedesco e nell'ipertrofia di un Welfare State che fino a ieri appariva il più solido e il più incorruttibile del mondo occidentale. Il primo è Otto d'Absburgo. Ci conosciamo dai tempi in cui l'ultimo arciduca della dinastia austriaca faceva parte della cerchia dei consiglieri intimi di Franz Joseph Strauss, gran signore barocco dell'autonomo feudo bavarese e padrone e ispiratore della Csu, il partito cristiano gemello della Cdu. Il deputato Absburgo è quel che si dice un conservatore illuminato. Colto, di fondo umanistico, cosmopolita e poliglotta esuberante, capace di esprimersi con la stessa scioltezza in spagnolo come in ungherese, questo discendente diretto di Francesco Giuseppe e di Carlo V si ritrova nelle istituzioni comunitarie come a casa propria; la multinazionalità è elemento naturale dei globuli imperiali. I suoi giudizi privi di pregiudizi sulla Germania mi appaiono interessanti perché sfaccettati, paradossali, idealistici e, nello stesso tempo, rivelatori di qualche nuovo risvolto nella mobile situazione politica germanica determinata dalla crisi del sistema pantedesco, a cinque anni dalla riunificazione. Gli chiedo con quali umori la Csu, che nell'ambito delle marcanti autonomie bavaresi rappresenta una sorta di partitoStato, stia accogliendo le proposte d'austerità del governo federale. «La Csu, checché se ne dica o pensi, è stata da sempre un partito conservatore moderno e dinamico. Lo statalismo non è mai stato un suo feticcio. Oggi la Csu è perfettamente d'accordo con le misure di risparmio e di snellimento burocratico avanzate dalla Cdu e dal governo Kohl. Il primo ministro della Baviera, l'ascetico Edmund Stoiber, erede del dinamismo straussiano, è tutt'altro che un dirigista fanatico; è per esempio favorevole alle privatizzazioni intelligenti, ben ponderate, tanto per l'Ovest quanto per l'Est della Germania riunita. La Baviera, che per tradizione e costituzione è quasi un piccolo Stato a sé stante, sa meglio di altri Lànder che un Superstato federale pesante, interventista e dispendioso, non farebbe che ritardare il nostro appuntamento con gli esami monetari di Maastricht». Mi colpisce l'apprezzamento che Otto d'Absburgo, forse un po' troppo ottimista, fa dei successi economici prodotti dalla riunificazione nella Germania ex orientale. Secondo lui, la Sassonia e la Turingia starebbero vivendo un nuovo decollo industriale, come alla fine dell'Ottocento, mentre sarebbero in decadenza la Saarland e il bacino della Ruhr. Temo che il giudizio, certamente valido per i primi cinque anni della riunificazione, che hanno conferito al tasso di sviluppo dell'Est germanico un record mondiale, sia in ritardo sui tempi veloci della crisi generale in atto. Se dobbiamo credere allo Spiegel, che ha dedicato la sua ultima copertina alla catena di crolli economici nella ex «Dar», anche la Turingia e la Sassonia sarebbero passate di colpo dal prodigio alla caduta: dal boom quinquennale alla quasi bancarotta. Mi colpisce poi il parere del¬ l'arciduca sulle sinistre, ch'egli non mette tutte in un sacco. Evidentemente i malori del sistema, invecchiato e incrinato, stanno provocando un curioso quanto inatteso rimescolio politico. Dice che le riforme e i tagli necessari al risanamento dello Stato sociale, o al suo parziale smantellamento, stanno allentando oggi l'alleanza rosso-verde, cioè socialdemocratici e ambientalisti coalizzati nei governi di alcuni Lànder. Retrogradi e antiquati i primi, audaci e più consapevoli i secondi. Non è cosa di tutti i giorni un Absburgo che definisce «reazionario» il leader della Spd, Oskar Lafontaine, «difensore a oltranza dell'archeologia industriale tedesca»; così come non è di tutti i giorni un Absburgo che, per contro, tesse le lodi di Cohin-Bendit, il piroforo del Sessantotto parigino, e del pragmatico capo dei verdi Joschka Fischer. Anche da altre parti, del resto, piove sulla socialdemocrazia l'accusa di rappresentare ormai una forza politica retriva, mentre l'ala dei verdi più spregiudicati, definiti «sani conservatori», sta lanciando segnali di realismo alla Cdu e spostandosi dall'ecologia all'economia. La verità è che le mutazioni in atto, i malesseri in fermentazione, la ricerca di nuove soluzioni per sanare il debito pubblico dello Stato, che sommato ai debiti occulti dei Lànder raggiunge ormai parametri italiani, im- pongono una drastica ridistribuzione delle carte nel gioco politico. I socialdemocratici, privi di ricette che non siano di pura conservazione dello statu quo, risultano tagliati fuori. Il neothatcherismo del partito liberale, membro della coalizione governativa, fa paura per le sue dissacranti parole d'ordine contro il «bene comune» e la sua decisa volontà di colpire alla radice le false simmetrie dell'assistenzialismo ancora imperante. Il cibo condito con troppi pimenti darwiniani non è adatto al palato postnazista dei tedeI schi; a molti il darwinismo eco- nomicistico della Thatcher ripugna perché, per qualche aspetto, ricorda sul piano sociale il darwinismo biologico del Mein Kampf sul piano razziale. I verdi, col loro romanticismo ambientalistico oggi venato di cauto economismo, danno più affidamento. Non è affatto da escludere che, dopo la grossa caccia elettorale del 1998, i verdi possano abbandonare i socialdemocratici e sostituire i liberali, divenuti troppo liberisti, in una futura coalizione guidata ancora una volta da Kohl. La furia iconoclasta contro lo Stato sociale del giovanissimo segretario dei- la Fdp liberale, Guido Westerwelle, che pur si dice più vicino a Tony Blair che alla Thatcher, non riesce a secernere il mastice di cui l'ansioso universo tedesco ha sempre bisogno; il culto del consenso, il tranquillante delle armonie corporative associate, la pace anziché la lotta di classe. Vediamo cosa mi dice ora un noto liberale moderato. Il secondo interlocutore che incontro, passando dai locali del Parlamento a quelli della Commissione, è Martin Bangemann, ex presidente della Fdp e del gruppo liberaldemocratico di Strasburgo, ex ministro dell'Economia a Bonn, oggi commissario per l'Industria e le Telecomunicazioni a Bruxelles. Il suo parere, sul piano europeo, è equamente negativo tanto sul decadimento progettuale dei socialdemocratici tedeschi («che non sanno più cosa proporre»), quanto sulla follia bovina dei conservatori inglesi («che ormai ci propongono la scelta tra la guerra zootecnica e il nulla»). Bangemann asserisce che gli uni e gli altri, dandosi inconsapevolmente la mano, frenano insieme la crescita europea e lo sviluppo europeo della Germania. Ha molta più fiducia per il futuro dell'Europa nel laborista Blair che nel conservatore Major. Dice che se Tony Blair diventerà il capo dell'esecutivo inglese, l'Inghilterra probabilmente non anteporrà più la pazzia delle mucche alla saggezza della moneta comune. Quanto alla crisi specifica della Germania, si tratterebbe eh una crisi emblematica dello Stato sociale europeo, il quale proprio nel mondo tedesco aveva toccato l'acme ormai paralizzante della perfezione e della prosperità. Posti di fronte a un morbo composito, che è insieme indigeno ed europeo, gli industriali tedeschi cercano ora di superarlo nell'ambito europeo. Tentano di sfuggire alla rigidità del costosissimo mercato del lavoro interno, di evitare le mille bardature burocratiche imposte dallo Stato imprenditore e dalle banche imprenditrici all'iniziativa privata, emigrando con capitali e idee negli spazi più favorevoli e più clastici di altre nazioni dell'Unione comunitaria. E' successo proprio alla Germania, che dava lavoro agli emi- granti di mezza Europa, d'imbattersi in un paradosso storico oltreché sociale ed economico. Una volta gli operai stranieri venivano in massa a cercare un posto presso le aziende germaniche; oggi sono le aziende germaniche che vanno a cercare gli operai all'estero. La Daimler Benz, per esempio, non si limita ad arruolare manodopera non tedesca per la ricostruzione di Berlino. Sta addirittura impiantando in Francia, nei pressi di Metz, non lontano dal Reno una volta fertile e oggi sterile, un grande complesso per la produzione in serie della vettura Swatch, basata su principi di motorizzazione ecologica. Frattanto la Siemens sta investendo a Newcastle, in Gran Bretagna. «Non si tratta di fuga di capitali», spiega Bangemann. «Si tratta di una legittima ricerca di profitti piit sani, meno penalizzati da gravami fiscali e assistenziali, in Paesi industrializzati europei dove il lavoro costa spesso il 50 per cento meno che in Germania, per tacere della Repubblica ceka dove costa perfino il 90 per cento meno. Le industrie tedesche, messe alle strette dai torchi giuridici tedeschi, hanno deciso di prendere alla lettera la legislazione comunitaria sulla mobilità dei capitali e degli investimenti. Nella Grande Germania, motore del continente come si suol dire, ci vuole un anno per ottenere dalla burocrazia un permesso di costruzione industriale; in Inghilterra bastano due settimane». Impressiona che i due colossi industriali tedeschi, Benz e Siemens, cerchino oggi d'investire e produrre nell'Occidente europeo piuttosto che nell'Est germanico; o che addirittura preferiscano l'Est slavo (boemo, poacco, sloveno) piuttosto che quello indigeno. Nessuno, come ho detto, vede nella riunificazione la causa di questa crisi strutturale del sistema, già latente prima della caduta del Muro. La riunificazione, coi problemi che ha portato, ha messo però in evidenza la vulnerabilità del sistema proprio nel momento in cui Bonn cercava di estenderlo, pienamente e acriticamente, anche ai 16 milioni di tedeschi dell'Est. L'imposizione della parità fra le valute delle due Germanie, il tentativo di unificare allo stesso livello dell'Ovest i salari e le previdenze dell'Est, si è rivelato alla lunga un errore. L'Est, dopo il boom iniziale, prodotto da forzosi investimenti politici, ha cessato di attrarre i capitali dall'Ovest; il prezzo alto del lavoro nei sei Lànder orientali, parificato a quello esistente nei dieci Lànder occidentali ha fatto deviare gli investimenti verso l'Est meno costoso della Polonia e della Boemia. Al tempo stesso, la qualità inferiore dei prodotti tedesco-orientali non ne favoriva lo sbocco sul mercato dell'Ovest; contestualmente il marco parificato ne bloccava l'esportazione verso i mercati tradizionali della Germania ex comunista. La riunificazione totale a tutti i livelli, non solo politici ma sociali, valutari, imprenditoriali, assistenziali, si è dimostrata insomma uno sbaglio: una svista macroscopica, che ha contribuito a mettere ancora più in evidenza i limiti e i deficit dello Stato sociale forgiato dal «modello renano». Invece di mantenere la Germania orientale a uno standard economico più modesto, trasformandola in una valvola di sfogo, in una riserva di manodopera meno costosa per la Germania occidentale, la si è voluta arricchire artificialmente. E l'artificio ha finito per impoverirla. Oggi l'Europa si trova al cospetto di un preoccupante dissesto pantedesco. Da un lato, sul Reno, crescita inceppata; dall'altro, sull'Elba, crescita zero. Enzo Bettiza (3-Continua) La Daimler Benz apre in Francia, al di là del Reno, una fabbrica d'auto; la Siemens investe a Newcastle Le aziende sfruttano la normativa comunitaria sulla libera circolazione Vanno in Paesi industrializzati europei dove il lavoro costa il 50% in meno E si preferisce l'Est boemo, polacco o sloveno a quello indigeno e riunificato VIAGGIO NELL'ANSIA TEDESCA Ma anche altre forze accusano Lafontaine di avere una sola ricetta: mantenere lo statu quo Per Otto d'Asburgo il leader della Spd è un «reazionario che difende a oltranza l'archeologia industriale» Oskar Fischer: i suoi Verdi candidati a sostituire i liberali in una futura coalizione con Kohl