Dopo il crollo dei partiti tradizionali, perché è così difficile formare la classe dirigente?

Dopo il crollo dei partiti tradizionali, perché è così difficile formare la classe dirigente? Dopo il crollo dei partiti tradizionali, perché è così difficile formare la classe dirigente? / nuovi boiardi d'Italia IGNI volta che si prendono le distanze dagli affanni della cronaca politica, riesce sbalorditivo 1 pensare al grande masdi classe dirigente a cui si stito a partire dal 1992, o di Tangentopoli. E' vero uella classe dirigente e classe politica (spesso i OIGNI volta che si prendono le distanze dagli affanni della cronaca politica, riesce sbalorditivo 1 pensare al grande massacro di classe dirigente a cui si è assistito a partire dal 1992, l'anno di Tangentopoli. E' vero che quella classe dirigente e quella classe politica (spesso i termini si sovrappongono, data la pervasività della politica) avevano dato una incontestabile prova di inadeguatezza. Ma la loro sostituzione si è rivelata tormentosa. In certi momenti, soprattutto dopo il grande ricambio parlamentare del 27 marzo 1994, si è avuta la sensazione che il nuovo personale politico fosse anch'esso perfettamente inadeguato. «Spesso ci chiediamo - ha scritto Giuliano Amato - perché la classe politica emersa dalla "rivoluzione" italiana non sembra pari al suo compito. E almeno in parte ciò dipende dal l'atto che i popolani che maneggiano la ghigliottina sono generalmente meno colti e raffinati degli ru *stocratici a cui tagliano la testa». Resta il fatto che in Italia mancano strutture come l'Ena, la scuola francese di alta amministrazione, quella che produce gli «Enarchi», strutturatissima aristocrazia di funzionari pubblici che innerva la tecnostuttura della Francia contemporanea al di là di qualsiasi trasformazione politica; e mancano pure le grandi università, le punte di eccellenza della ricerca e della didattica. E quindi si è assistito a un procedere per prove ed errori. Oltre che come invenzione politica berlusconiana, partito-azienda, dimensione postmoderna della politica, Forza Italia può essere anche considerata come il tentativo di portare a faccia a faccia con il governo del Paese l'Italia delle professioni e dei professionisti una classe di non-politici convocata per gestire la cosa pubblica. Avvocati, medici, notai, ma anche operatori turistici, venditori di pubblicità, mediatori finanziari: uno strato di lavoratori autonomi accomunato dall'idea che l'Italia, cioè una società complessa, potesse essere amministrata con le tecniche semplificatone dell'azienda individuale. Tuttavia il partito delle partite Iva non poteva trasformarsi in classe dirigente in un lasso di tempo cosi breve. Prima infatti c'erano i partiti storici, le loro lente ma sicure tecniche. C'era il pci-pds, che a lungo ha allevato i suoi dirigenti alle Frattocchie (e il nuovo libro di Miriam Mafai, Botteghe Oscure, addio, ò esemplare nel raccontare come la scuola di partito non insegnasse soltanto un burocratico breviario marxista, ma anche uno stile di vita, una sorta di moralità proletaria con le sue regole e anche le sue ipocrisie). Oppure la de, abituata a reclutare i propri uomini sia dentro istituzioni come l'Università Cattolica e all'interno delle strutture del cattolicesimo impegnato politicamente (come la Fuci e l'Azione cattolica prima della scelta religiosa), sia nelle forme tradizionali di attività politica dentro il partito e le correnti. Erano processi di formazione lenti, dentro apparati solidi, sicuri, apparentemente immutabili. Ma il crollo di molti dei vecchi partiti ha lasciato nuda la politica. Soprattutto sul piano culturale. Perché per la politica la cultura non serve a nulla quando c'è: se non è solo un ornamento, è al massimo uno strumento parallelo di formazione e aggregazione del consenso; ma quando manca sono guai. Il mercato e il privato formano professionisti, ma non professionisti della politica. Cosi Silvio Berlusconi deve rivolgersi a un professore della Bocconi, Giuliano Urbani, per costituire l'embrione programmatico di Forza Italia, l'Associazione per il Buongoverno, e a un giovane intellettuale cattolico moderato, Paolo Del Debbio, per coordinare il programma elettorale del nuovo movimento politico. E non è stato sufficiente. Per rilevare con più precisione la fisionomia liberale del Polo, Forza Italia ha dovuto portare poi in Parlamento un intero parti tino di intellettuali (Lucio Collet: ti, Marcello Pera, Saverio Vertone, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa), appaltando loro la «li¬ nea». Mentre a Gianfranco Fini non è bastato l'apporto di Domenico Fisichella, il progettista «ideologico» di Alleanza nazionale, per rendere immediatamente plausibile sul piano culturale la svolta postfascista dell'msi. E difatti il lato più debole delle tesi di Fiuggi, in cui Au cercava di precisare la propria revisione, era proprio quello culturale: «Nella cultura politica della Destra c'è posto per il decisionismo di Schmitt e le elaborazioni del sociologismo politico di Pareto, Mosca e Michels, per l'antistatalismo di don Sturzo e la critica alla partitocrazia... per Prezzolini e Papini, Marinetti e Soffici, Evola e D'Annunzio»: se uno ci cercava un fondamento liberale trovava piuttosto «una cultura che raccoglie in modo eclettico i nomi piii disparati, molti dei quali francamente nemici di quel primato di libertà affermato con enfasi dalle tesi» (Gian Enrico Rusconi). La cultura non si inventa. Tanto è vero che nella «Ponti- // profdelgovern guano di destra», nel seminario di San Martino al Cimino, gli esponenti di Au sono stati felici di farsi maltrattare dal sadismo intellettuale di Lucio Colletti. Perché cultura significa identità, convenzioni, abitudini, comportamenti, un galateo adeguato alle diverse circostanze in cui ci si trova e quindi anche all'appuntamento col potere. Non è un caso, quindi, che in una fase di acutissima crisi politico-economica il Presidente della Repubblica abbia pescato la soluzione del vertice della Banca d'Italia, con l'incarico a Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 (ma riesce difficile dimenticare che anche Lamberto Dini, prima ancora che ministro del governo Berlusconi, era il direttore generale della Banca d'Ita¬ no nisti uò iduale lia). Perché l'istitut.o di via Nazionale non costituisce soltanto un'«autorità indipendente» del massimo prestigio, o un potere «forte» secondo l'interpretazione dell'ex ministro dell'Armonia Pinuccio Tatarella, ma rappresenta anche un luogo di elaborazione di stili peculiari, di concezioni condivise in nome di un «servizio» pubblico interpretato con elegante e studiato rigore. Ciò significa che quando si interrompi! la catena che assicura la trasmissione politica delle competenze, le istituzioni vanno alla ricerca di «riserve», di bacini di competenza rimasti intatti, di risorse inutilizzate o in precedenza escluse dal grande gioco. Fintanto che i partiti hanno dovuto semplicemente fare operazioni di maquillage, o introdurre quote aggiuntive di competenza tali da correggere l'occupazione partitocratica, è bastalo attingere dall'università (e c'è stato un «tempo dei professori» in ogni ente pubblico, dall'Iri all'Eni e alla Rai). Anche la magistratura ha fornito un folto personale alla politica. Ma quando la crisi è entrata nella fase acuta, si è assistito alla ricerca Sempre piii affannosa di operatori politici qualificati, anche si; soltanto potenziali. Lo stesso caso del Mulino può essere interpretato non tanto come la storia di un'ascesa al potere sulla base di un progetto politico quarantennale, quanto come un serbatoio di intelligenza politica che «era li», e che certo era già stato utilizzato, ma che nel momento critico, allorché occorreva costituire l'intelaiatura operativa di un governo, offriva un'amplissima rete di intellettuali e di esperti, una riserva in larga misura inesplorata di conoscenza tecnica e di sapere disciplinare. Il fatto è che i tempi della cultura sono lunghi, mentre quelli della politica ormai sono brucianti, scanditi dalla quotidianità, da aspettative di brevissimo, periodo. Per improvvisare un candidato in un collegio uninominali! ci vuole relativamente poco, mentre per fare un discreto ricercatore universitario ci vogliono perlomeno ven- l'anni. E quindi, essendo venute a mancare le strutture politiche entro cui avvenivano le carriere, si è passati al reclutamento dall'esterno. Si cerca il manager fatto e finito e lo si coopta dal settore privato: è il caso di Letizia Moratti alla Rai e, recentissimo, quello di Franco Tato passato dalla Mondadori all'Enel. Eppure, malgrado la rivoluzione, gli ultimi mohicani, i grandi boiardi di Stato, resistono senza considerevoli difficoltà. C'è uno strato di establishment impermeabile a qualsiasi mutamento, che si adatta in modo camaleontico a ogni trasformazione. Non c'è legge maggioritaria o «sistema delle spoglie» che tenga: i dirigenti dell'economia pubblica possono sempre selezionare un referente politico interno alle coalizioni vincenti, e su quel referente attestare la propria posizione, con una controassicurazione reciproca che li rende inamovibili (un esempio dello schema: dopo la vittoria del Polo, si assiste a una conversione di massa ad An, individuando il partito di Fini nella coalizione di centrodestra come l'imprenditore politico del settore statale, dopo la controvittoria dell'Ulivo si punta su Dini, che per un certo periodo promette di essere un'ottima sponda politica). Si direbbe quindi che l'Italia contemporanea è esattamente in bilico fra necessita del ricambio e legge ferrea delle oligarchie. La trasformazione politica ha portato segmenti di élite prima marginali rispetto al circuito politico a diretto contatto con il potere; ma ciò è avvenuto in stretta connessione con il cedimento del sistema politico. Ciò significa che nel frattempo sono venute a mancare quelle risorse politiche che in precedenza venivano assicurate dai partiti: la solidarietà e i patti di lealtà tra persone e fra gruppi, l'immediato adeguamento di un sottosistema politico alle direttive della centrale politica di riferimento. Ora sono le burocrazie ministeriali ad assicurare la continuità, gli apparati diplomatici, le strutture che garantiscono lo svolgimento della routine. Ma proprio questo potrebbe dare luogo a un conflitto impercettibile ma dalla sorte già segnata: gli uomini che arrivano al governo del Paese, proprio perché non sono più automatica espressione dei partiti, tendono ad agire individualmente, senza essere vincolati da una catena di comando. E' la situazione migliore per cadere prigionieri dei direttori generali dei ministeri, della opacità delle pratiche operative, dei centri di decisione non trasparenti che costituiscono la mano invisibile che aziona, o preferibilmente blocca, la macchina dello Stato. Ma è anche la prova che un sistema che ha alimentato se stesso sempre per cooptazione o viene riformato in profondila, oppure resterà il più sicuro fattore di conservazione. Edmondo Berselli Nessuna grande università né scuole di amministrazione pubblica: si procede per prove e errori // mercato e il privato formano professionisti, ma non professionisti della politica: il Paese non si può governare come un 'azienda individuale Da sinistra Carlo Azeglio Ciampi, «superministro» dell'Economia per l'Ulivo, e due professori imprestati alla politica: Domenico Fisichella (An) e Giuliano Urbani (Forza Italia)

Luoghi citati: Fiuggi, Francia, Italia, Mosca, Pareto