Cominciava 60 anni fa con l'insurrezione dei militari contro il governo repubblicano: fu l'atroce prova del conflitto mondiale Guerra di spagna piccole vite di una carneficina

Cominciava 60 anni fa con l'insurrezione dei militari contro il governo repubblicano: fa l'atroce prova del conflitto mondiale Cominciava 60 anni fa con l'insurrezione dei militari contro il governo repubblicano: fa l'atroce prova del conflitto mondiale piccole vite di una carneficin UARDA la fotografia di RoI > bert Capa, sì, quella del mi- I liziano colto al volo dalla II morte: calati dentro quel" 1 l'attimo fissato (per l'eternità) dal grande Bob, riemergi e racconta la guerra di Spagna. Ma io, allora, ero soltanto un bambino; quella guerra c'è stata sessant'anni fa e, poi, dicono che la fotografia del «grande Bob» sia un falso, insomma una «morte virtuale» fabbricata con la Leica. Non importa: da più di mezzo secolo, oramai, quella fotografia «è» la guerra di Spagna. Ed eccomi a scrivere di quella guerra lontana, andando su e giù con l'ascensore della memoria, facendomi prestare i ricordi di Gian Gaspare Napolitano, di Virgilio Lilli, eccetera, inviati speciali in Spagna, cari maestri miei «svaniti». (I grandi giornalisti sono come i vecchi soldati: non muoiono mai, svaniscono). * * # Lo Zio Neddu non era proprio uno zio. Aveva infatti sposato una lontana cugina di mio padre e tuttavia in famiglia lo chiamavano «Zio». Un po' fesso epperò abile con le carte, era. Allettato da una cospicua dote (subito dissipata allegramente) aveva finito col convincersi che sposare Rosina M. poteva andar bene. Bellina, educata come si deve, brava al pianoforte (La preghiera d'una vergine il suo pezzo forte; e unico), tutte queste virtù prevalevano sul fatto che fosse un po' «babba». In quei tempi i signori mangiavano accuditi da una schiera di servitori. Si contentavano di poco, costavano pochissimo. Una di loro, la giovine Mara, badava alla Zia Rosina poiché costei, non appena finiti gli spaghetti o dopo il pesce, eccetera, impugnava il piatto e pronunciando, sommessa, le seguenti parole: «Tieni Mara», lo lasciava cadere sul pavimento. Con balzi da capra, Mara riusciva, quasi sempre, a salvare il vasellame. Volontario in Africa, lo Zio Neddu riuscì a imboscarsi all'Asmara dove fece una mezza fortuna spellando, a poker, colonnelli e generali. Tornato a Catania, onusto di gloria fasulla, perse il mal guadagnato nel giro di pochi mesi, sicché decise +di farsi richiamare e quando, chissà come, ci riuscì prese servizio al distretto militare. Ma sotto Natale un telegramma intimò al sottotenente N. B. di «presentarsi giorno 2 gennaio comando divisione Littorio località Littoria stop desolazione ignota stop». Fu così che lo Zio Neddu andò in Spagna, da involontario volontario. Correva l'inverno del 1937 e laggiù egli subì presto il disagio mostruoso di lunghissime marce nel fango. I Franchisti hanno conquistato Malaga, grazie all'apporto degli italiani, il reggimento dello Zio Neddu marcia su Madrid ma viene dirottato altrove e intanto l'esercito franchista, già fermato a Jarama perde, infine, la battaglia di Guada lajara. Fu, quella battaglia, forse il primo esperimento su vasta scala di moderna guerra di movimento. Sennonché «contro ogni consuetudine climatica» pioveva e l'offensiva nazionalista naufragò nella melma, tramutando la ritirata in rotta L'inviato del New York Times scrisse: «Nulla di più importante della sconfitta degli italiani a Guadalajara è accaduto nel mondo do po la guerra europea». Ma, come annotò a Madrid l'ambasciatore Cantalupo, «nel quartier generale franchista al vivo rincrescimento è subentrato un senso di assurda soddisfazione per l'insuccesso degli italiani. CTV, la sigla del Corpo Truppe Volontarie, veniva trasformata dai nazionalisti in Citando Te Vasi, Quando te ne vai?». Fu deci samente una disfatta quella subita dagli italiani a Guadalajara ma il fascismo riuscì a truccare le carte, Lo stesso Mussolini «scese in cam po» per spiegare sul Popolo d'Italia che «Guadalajara non fu un insuccesso bensì una vittoria italiana» che il destino, ovviamente antifa scista, non consentì di sfruttare a fondo. Nei Cinquanta, quando frequentavo «l'Università Mario Pannunzio», vale a dire il Caffè Rosati di via Veneto, chiesi a uno dei miei maestri, Gian Gaspare Napolitano, come fossero andate veramente le cose, a Guadalajara. Glielo chiesi perché la Gazzetta del Popolo lo aveva inviato proprio su quel fronte. Gian Gaspare si rivolgeva ai giovani giornalisti (io, Piero Accolti, Giovanni Russo, e pochi altri) del «Rosati» clùamandoci Ninni. Ti porterò un mio pezzo d'allora, Ninni, disse. «... fu deciso l'allineamento qualche chilometro più mdietro. Anche "Barba Elettrica" (il generale Bergonzoli, ndr) dovè ripiegare, lui che non avea perduto un metro. La mattina del 19 di marzo era la mattina del ripiegamento. Per chilometri e chilometri, risalimmo le colonne dei camion che venivano indietro nel silenzio. Quella gente obbediva, non parlava. Uscimmo fuori dalle linee, verso Brihuega. Non c'erano strade asfaltate e nel fango era rimasto un po' di materiale: qualche camion, affondato nella melma, o rimasto senza benzina, alcuni pezzi. Un capitano d'artiglieria che aveva dovuto lasciare nel ripiegamento due pezzi nel fango, tornò indietro con un trattore e li riportò a casa. I Legionari ebbero il cambio, poco alla volta. Quando partì il gruppo di Martini, ero alla fonda dì Medinaceli, a tavola, con gli ufficiali di "Barba Elettrica". Si sentì una banda: andammo tutti fuori. Il gruppo Martini, lacero, barbuto, incrostato di fango e di sangue, ma con le armi lucenti, sfilava davanti al suo comandante prima di raggiungere la tradotta. La banda suonava Ma non saremo soli». In assoluto fu una sconfitta, Guadalajara, ma gli italiani combatterono bene, anche per puntiglio poiché non si sentivano amati. Non tanto dalla gente, giacché non pochi erano schierati coi repubblicani, quanto dai comandi franchisti. Ho sempre pensato, Ninni, disse Gian Gaspare, che Franco non amasse Mussolini di cui, per altro, subiva il fascino, e che odiasse Hitler che tuttavia temeva. Il bombardamento tedesco di Guernica, una inutile crudeltà, scosse persino il gelido galiziano Franco. Qui va detto come i nostri inviati, al contrario di quanto era avvenuto in Etiopia, un'idea della realtà riuscivano a darla dalla Spagna. Era, ovviamente, un linguaggio allusivo, il loro, ma facevano pur' sempre buon giornalismo. Per lo Zio Neddu, invece, erano tutti in malafede i «giornalai» nostri. Era tornato, lo Zio Neddu, carico di medaglie, pieno di quattrini in gran parte scippati col poker («giuocavamo anche nei cimiteri»), e inopinatamente antifascista. Ma come, si disperavano i suoi amici del Bar Lorenti, vorresti negare le statue di Gesù fucilate dai rossi, lo stupro delle monache, la tortura ai preti, i saccheggi. No, rispondeva lui, io non nego una coppola di minchia, ma cosa credete che i Franchisti, quelli di Viva la Allo sil Conmise e ne f«Per i Mueite, distribuiscano fiori? Anche loro fanno cose turche. E sapete che vi dico: porci, rossi e neri, tutti porci e troia la guerra. Non mi fregano più. E infatti quando lo richiamarono per mandarlo in Albania, avendo deciso, lo Zio Neddu, di non farsi fregare più, pose fine ai suoi giorni con mi aggiustato colpo alla tempia della Beretta d'ordinanza. Lasciò poche parole: ((Abbasso la muerte viva la vita. Abbasso il fascio e pure il comunismo. Cornutissimi entrambi. Una raccomandazione a mia moglie Rosina: non piangere, d'ora in poi potrai rompere quanti piatti vorrai. P.S. Non cercate le medaglie, le ho buttate nel cesso». (Rosina lo pianse sino all'ultimo piatto: avsvv! ripreso a lasciarli cadere dalle mani ù dor- no stesso del funerale). Un giorno dell'autunno odoroso di grappa del 1950, Isi Benini, chiaro e caro collega friulano, mi portò in un'osteria alle porte di lagnano a bere un bicchiere niente di meno che con Hemingway. (Lui ci veniva spesso da quelle parti). Il Grande Vecchio non sapeva bere, tracannava il vino banale di quell'osteria esaltan¬ done gli inesistenti pregi. Beveva per vivere, in quel tempo, forse. Hemingway non parlava volentieri della Spagna, ostentava un anticomunismo ferreo, ma gli anarchici gli piacevano. Diceva che i reds, quei bastardi, ne avevano ammazzati tanti di anarchici, forse più anarcluci che curas. Tuttavia la rovina della Spagna antifascista fu l'anarchia, sentenziava. E poiché gli ricordavo Garda Lorca, il «suo» poeta, costretto dai Franchisti a scavarsi la fossa, fucilato senza processo, con dileggio perché «simpatizzante repubblicano e njto omosessuale», lui, Lorc^, „ue cantava l'amore e la gida e la Spagna e amava la libertà, povero, tenero, immenso Foaerico, interrompendomi: M'arda, disse il Grande Vecchio, ma quella era una guerra civile, e questo fa la differenza. Certamente: la guerra civile; nel 1950 ne eravamo appena usciti, noi italiani, che diamine. Ma quella, la spagnola, dico, apparteneva alla Storia, non alla mia vita. Così, adesso, guardo la famosa fotografia di André Friedmann, che poi è lo stesso che dire Bob Capa, ucciso da ima mma in Vietnam. E mi dico che, forse, il Vietnam è stato una replica della guerra di Spagna. Perché no. E lo stesso il Libano, durante 17 anni. «Il mondo è la mia finestra» diceva Capa. A pensarci bene la finestra è lui, è la sua fotografia spalancata sulla vita, sulla morte dell'uomo, sulla guerra. «E' proprio una bella guerra, questa», disse John. «Davvero, dissi io, è una bella gueira» (cfr. John Sommerfield, Volunteer in Spain, 1937). Virgilio Lilli, altro straordinario raccontatore della guerra di Spagna, nelle dolenti sere di Saigon ripeteva spesso: questa guerra del Vietnam fa pensare alla Spagna, sissignori, però quella... Finché non mi raccontò d'aver incontrato Barzini padre durante la battaglia dell'Ebro. Il vecchio Barzini era turbato, prima di partire per la Spagna aveva letto un articolo di Maritain: così cercava risposte, in quel carnaio. Ho trovato quell'articolo uscito sulla Nouvclk' Reiaie Francaise nel luglio del 1937. Dev'essere proprio quello di cui palava Lilli. «E' un orribile sacrilegio massacrare dei preti - per quanto "fascisti" sono pur sempre ministri di Cristo - in spregio alla religione; ed è un sacrilegio non meno orribile massacrare dei poveri - per quanto "marxisti" sono il popolo di Cristo - in nome della religione. E' un sacrilegio profanare i luoghi santi e il Salito Sacramento, disonorare e torturare religiose, esumare cadaveri per abbandonarli allo scherno; ed è un sacrilegio fucilare, come a Badajoz, centinaia di uomini per festeggire il giorno dell'Assunzione, 0 annientare, come a Guernica, una città intera con le sue chiese e 1 suoi tabernacoli, falciando con le mitragliatrici la povera gente in fuga». * # * Sono passati sessant'anni da quell'atroce prova generale della seconda guerra mondiale. Tornano vecchi boia a dirci che il processo al Nazismo attende ancora una condanna che finalmente spieghi l'orrore di Auschwitz fotografato da Capa, l'orrore di Guernica gridato da Picasso; le ultime Br si rivelano e noi continuiamo a interrogarci sulle origini della guerra di Spagna. Incredibile. Quella guerra fu provocata dall'«egoismo suicida» dei ricchi, per citare il leader conservatore Ci! Robles, e dalla mentalità della «Spagna eterna» (quella dell'Inquisizione e della caccia agli eretici) che allo scoppio della guerra, come scrive Antony Beevor, spinse il Conte de Alba de Yeltes a far mettere in fila i suoi braccianti e a far fuoco su sei di loro «pour encourager les autres», come poi spiegò? Ovvero la guerra fu provocata dagli infiniti scioperi, dall'occupazione selvaggia di terre, dalle provocazioni anticlericali di proletari irresponsabili? Oppure dalla speranza di combattere e battere il Fascismo sull'unico territorio possibile? Arriveremo un giorno alla Verità? Prendiamo in prestito da Bernanos una risposta, là dove, nei suoi Grandi cimiteri sotto la luna (trad. G. Spagnoletti), dice: «Compagni sconosciuti, vecchi fratelli, arriveremo insieme, un giorno, alle porte del regno di Dio. Turba ingannata, turba sfinita, imbiancata dalia polvere delle nostre strade, cari duri visi di cui non ho saputo asciugare il sudore, sguardi che hanno visto il bene e il male, che hanno eseguito il loro compito, accettando la vita o ia morte, oh, sguardi che non si son mai arresi! Così vi ritroverò, vecchi fratelli: come la mia infanzia vi ha sognati». Igor Man Da Hemingway a Lilli la tragedia rivissuta attraverso i ricordi dei grandi inviati Allo scoppio delle ostilità il Conte de Alba de Yeltes mise in fila i suoi braccianti e ne fece fucilare sei: «Per incoraggiare gli altri» Ernest Hemingway, inviato nella guerra di Spagna. Accanto un gruppo di franchisti. A destra le Brigate internazionali. In basso il «miliziano morente», la famosa foto di Robert Capa