Lavori in corso permanenti, cartelli come banderillas sul toro agonizzante: nessuno reagisce più Roma città dal maquillage eterno

H^AAAiAAyvv Lavori in corso permanenti, cartelli come banderillas sul toro agonizzante: nessuno reagisce più Lavori in corso permanenti, cartelli come banderillas sul toro agonizzante: nessuno reagisce più Rema, città dal maquillage eterno Giubileo, un 'Urbe in bilico fra Di Pietro e San Pietro CCO come appare Roma in questa lingua di fuoco estiva: intubata. Può dare la duplice e contraddittoria impressione (come il disegno in cui puoi vedere o due profili uno di fronte all'altro, oppure un vaso) di un malato terminale che emette mi flebile bip, o di una creatura sotto lifting, liposuzione, abbronzatura coatta. Certo è sotto un groviglio. Una folla di cerusichi l'assedia, la transenna e il suo cuore pulsa di martelli pneumatici: un cuore cablato come tutti i cuori di città in vista dell'informatica della terza generazione sottocutanea, da distinguere da quella satellitare che viene dal nero dei cieli. E cosi, camminando e viaggiando per le strade si vede bene com'è fatto questo insieme di viscere innervato da fili. Roma è scoperchiata, bypassata da scali ferroviari in pigro divenire, selvaggiamente infilzata da pinze di lavori in corso, sicché somiglia a quelle scimmie sul tavolo degli esperimenti con la calotta cranica scoperta e nella materia grigia venata di rosso si notano spinotti di fili, saldamente infilzati come banderillas. Insomma, una città sperimentata e sperimentale in corpore vili, ora rifatta alla piaciona, ora severamente redarguita, sempre capace di essere duttile e dilettevole. E sulla cui illimitata pazienza si possono ognisempre e comunque compiere esercizi montessoriani a mano libera: piste ciclabili come quella disegnata fra San Pietro e Foro Italico in occasione dei mondiali di calcio. E ancora: estati a soggetto, feste e festival sganciati da ogni identità, perverse utopie urbanistiche che non tengono conto del fatto che questo luogo non-luogo, tuttavia concretissino e reale, è una successione di foglie di cipolla sovrastanti e traslucenti, una città a strati di riflessi, di budelli irrisolvibili, di accanimenti italiani, nel senso unitario e nazionale: accanimenti che ne devastarono per sempre il corpo delle ville infinite e comunicanti, da via Veneto a Villa Borghese, a Villa Ada e al Parco delle Rimembranze, fino al Gianicolo e Villa Pamphili, Spada, Chigi. Prima, era una città che viveva la sua precaria eternità in un delicato equilibrio psicologico archeologico e di memoria, improvvisamente scaraventata nel lunapark dell'edilizia, smembrata a lotti, latifondi, imitazioni piemontesi (peraltro felicissime e anzi le migliori). E che poi ha dovuto imparare a vivere con il suo stesso tumore, con le infinite metastasi, a lasciarsi devastare dal palazzinume democristiano espanso dell'infernale mostro eczematico degli Anni Cinquanta e Sessanta. Fu allora, trent'anni fa e passa, ormai, che questa creatura capì di dover assumere come identità quella stessa della propria malattia portatale dall'esterno. E capì che doveva fare della propria disgrazia un oggetto teatrale, portarlo a Cinecittà, trasformarlo in un setting: quello della commedia all'italiana con Memmo Carotenuto commendatore. Le cambiali. Le corna. L'inghippo. L'intruglio. L'inciucio. La paraculata. Tra un mambo della segretaria e un cha cha cha della «servetta veneziana che davanti alla finestra in sottoveste sta». Per questa via al calvario si arriva alla Roma attuale, autoridotta all'autodileggio, graziosa con i suoi persecutori, detrattori, ostessa benevola di quella torma di smandrippati che la fiutano come un vicolo, la colmano di fantasie. Dopo 126 armi di lavoro subur¬ bano di capitale edificata neomonumentata a macchina per scrivere assirobabilonese (il Vittoriale) o da fondo d'opera Incas (il Palazzaccio), iniettata di lamiera perché i pubblici trasporti più di tanto non possono e non potranno mai fare, la città eterna alla fine si ritrova come i nani e i gobbi del Rinascimento che dovevano considerare la sventura fisica come un conto in banca, un conto di elemosine, di pietosi versamenti e crapule eccessive tra una bastonatura e una parodia mimica del potere. Così da sopportare la neoplasia del cemento. Un cemento senza pietà. Senza forma, nessun'anima, niente strade degne di questo nome, invasa, perfusa, tirata su a cortisone. Certo, il viaggiatore turista non ha alcuna ragione di venire nel quartiere Africano, eppure invece anche qui ci sono: i pellegrini sono ovunque e in special modo i non cristiani, gli asiatici. Sella del Diavolo, un sasso di molteplici e dubbie origini, alto medioevo, basso impero, sta in vetta a una piccola piazza da cui si dipartono strade mostruose della Roma inventata nel dopoguerra, la Roma che ho visto crescere da ragazzo e che progrediva fra ruspe e benne allontanando pecore e zecche, facendo arretrare le marane, cioè i fossi di acqua viva e le pozze in cui ancora vent'anni fa vivevano girini, tritoni, salamandre, idre d'acqua, pescigatto. Ricordo in una di queste strade dai nomi coloniali, etiopici e somali o libici, la macchina del povero giudice Vittorio Occorsio ucciso da ima sola pallottola della lunga raffica, un colpo di rimbalzo alla tempia, un rivolo di sangue e le formiche di giugno che facevano la fila per vederlo. Perché Roma è stata sempre città di morti e delitti, terroristici e no, di Antoniette Longo decapitate sul lago o di Cesaroni trafitte a stilettate, e di misteriosi arabi fatti fuori a revolverate da altri arabi o dai servizi israeliani (parecchi nel quartiere Africano, sopra le catacombe di Sant'Agnese), dal momento che questa è anche una zona di piccole ambasciate e consolati. Quanto al resto, stradine rninuscole intasate di lamiera, lamiera rovente d'estate e gelida d'inverno. Ma questa Roma che sfugge agli itinerari e agli itineranti è il ventre burocratico, carcerato nel cellarium palazzinarium e là costipato, ed è questo ciò che di Roma somiglia di più alla città delle indecenze, degli accomodamenti, dei palazzi di Giustizia abitati da basilischi, ministeri di lemuri invisibili o da iguana voracissimi. A piedi per il corso Trieste, Disseminato di paninerie e bar studenteschi ma anche turistici, fino alla Nomentana urbana, a porta Pia e via XX Settembre, nomi e luoghi dell'accorporamento a Roma nazionale, le cannonate delle batterie lontane, gli zuavi, le brume di una fine d'estate lontana come quella della Comune di Parigi, della guerra franco-prussiana. A piedi per la città saccheggiata e svenduta che cresceva, prima e dopo il fascismo, nel sordo rancore degli altri italiani, che vedevano in lei il simbolo del Risorgimento elitario. E durante il fascismo la Roma di cartapesta e travertino, i gerarchi nel cerchio di fuoco, le truppe cammellate a piazza Venezia, Hitler che arriva nella giornata particolare sbarcato alla stazione Ostiense costruita in fretta e furia per usare bene il fondale della piramide Cestia, monumento di un riccone a se j stesso, curiosità falsoegiziana \ e hollivuddiana imperiale. Camminare per Roma, la Roma sulla quale si squartano le mappe del Giubileo, significa non soltanto vedere gente e luoghi, ma respirare anche quell'oscuro luteranesimo antiromanista che spira dalle nuove religioni riformate del Nord, alimentate da indignazioni sacrosante ma non esenti da arricchimenti d'assalto fiscalmente riottosi; nervosi e saturi di un'ira immediata e senza tempo, un po' padana, un po' europea e un po' lanzichenecca. Così, oggi, questa condizione del nuovo rancore accumulato contro la Roma-simbolo delle indulgenze altrui, sedimenta in una tossina, un veleno in più. Ci piacerebbe poter dire che Roma, la sua sventurata popolazione, reagisce, scatta, si impenna presa da una nuova passione civile, manifesta, obietta, si incazza, propone, alza la barricata sul Gianicolo, e invece macché. E invece si vede che è una città depressa, inerte e senza neanche quelle risorse urlerecce, ipervolgari ma clamorose e udibili, che permettono ad esempio a Napoli di farsi sentire. Tutto ciò, non se ne abbia a male il sindaco Rutelli che ha purtroppo assunto un'arietta sbrigativa da lassateme perde, no' lo vedete che starno a lavora pe' voi e che nun ciavemo tempo de dà Ti resti, dunque piantatela de rompe; tutto ciò non ha nulla che fare con meriti e demeriti della civica amministrazione che già ha riempito tutto il suo daffare nel contendere al divo Di Pietro le sistemazione delle romane pietre nell'avveniristico evento chiamato Giubileo. D'altra parte, che l'urbe dovesse cercare un equilibrio pendolare fra Di Pietro e San Pietro (i veri protagonisti, a quanto pare), era scritto già nella Torah di ghetto, per dire qualcosa di profondamente romano. Né si può negare che la parola Giubileo, per allitterazione, richiama prima di tutto alle giuggiole dolci e gommose; poi all'atto di giubilare: nel senso di far fuori in maniera sbrigativa chi non sta allineato e non dice di sì. Roma non ha pianura, dunque non ha una cultura da pianura, da incontro nell'agorà (i Fori sono rovine cintate, memoria di ua civiltà dell'incontro) e dunque è una città che per sua natura non ha pace e non consente tregua, specialmente ora che i turisti la informicolano con orde continue e facoltose che sgorgano dalla crisalide dei pullman, capaci di sfornare ogni genere di larve metodiche, precedute da un capolarva che innalza un vessillo affinché i membri della stessa varietà (tedeschi, russi, finlandesi, ovviamente giapponesi) si riconoscano. Questi vessilli sono spesso animali di peluche, koala o giraffe o forse jene di panno, infilzati sul puntale d'un bastone pastorale con cui i nuovi vescovi della confessione turistica chiamano a raccolta i catecumeni, le larve, i prepagati, gli uomini-voucher. E', questa mia, l'nnpressione finale. Nessuna ambizione diagnostica: Roma intubata e inerte, ma non morta e tuttavia non precisamente viva. E' una percezione fattuale. Come quelle che si è costretti ad accettare quando il caro parente non ti riconosce più, o straparla avvitandosi nel suo abisso. E' la mia città, è la mia vita: le riconosco ciò che troppi miscredenti le negano scambiandola per un mucchio di macerie e di imbrogli. Le riconosco la dimensione, l'alterigia, la statura, la complessione e la memoria della metropoli di tutte le metropoli, crocevia di tutte le gallerie e di tutte le catacombe della storia e della memoria. Roma, se ci possiamo permettere l'azzardo, funziona dal punto di vista immaginario ed esteriore, così come funzionano le macchie di Rorschach: il test delle macchie d'inchiostro sulle cui fantasie possono ben essere misurati e tarati sia la pazzia che il conformismo, le bieche tendenze amorose o la furia iconoclasta di un narcisismo senza paracadute. Le macchie, in sé, cioè, non rappresentano nulla. Ma chi se le trova davanti vede, specchiandosi l'anima in quel nulla variato, o conigli in carrozza, oppure quattro cammelli che giocano a carte barando. Roma non ha il privilegio che hanno le altre città, belle o brutte, di essere se stesse. Roma è la macchia d'inchiostro sulla memoria nazionale, è la proiezione, è un insieme di delitti incompiuti, è la folla e la pressione di ciò che è fuori, lontano da Roma. Paolo Guzzanti (3-fine) Da regno degli scavi archeologici E dentro la neoplasia del cemento a luna park dell'edilizia selvaggia tour per pellegrini di tutto il mondo H^AAAiAAyvv GIUBILEO [lì ì| É|ì | ìjì lil o libea diseItalico calcio. o, feste entità, he che to che uttavia uccesastanti ti di ri di ac unitache ne corpo icanti, hese, a imeme Villa viveva n delircheoovvisanapark otti, laesi (pegliori). re a vire, con arsi democrile moni Cinpfondale della piramide Cestia, monumento di un riccone a se j stesso, curiosità falsoegiziana \ e hollivuddiana imperiale. vemo tempo de dà Ti resti, dunque piantatela de rompe; tutto ciò In basso: lavori stradali nelle vie della Capitale e, nella foto grande, i Fori Imperiali Il sindaco di Roma Francesco Rutelli