L'ONORE DEI GUMPS di Stefano Bartezzaghi

L'ONORE DEI GUMPS L'ONORE DEI GUMPS Una striscia che è il ritratto dell'America Anni 20, con due virtù su tutte: l'ambizione e l'orgoglio Una serie di tavole del fumetto «I Gumps», monumento al ceto medio americano: 10 eresse 11 disegnatore Syd Smith CRIVEVA quasi tre quarti di secolo fa, l'impareggiabile Gilbert Seldes nel suo, già citato, gran libro Seven Lively Arts: «Certo nei fumetti c'è una buona dose di monotona scemenza, di comicità a basso livello, un umorismo ordinario che risulta straordinariamente lugubre. Senza parlare della notevole quantità di cattivi disegni e della media intellettuale non proprio eccelsa. Tuttavia, noi americani non siamo degli stupidi, ci divertiamo come possiamo e possediamo un'eccezionale capacità di amare quello che ci rivela a noi stessi in situazioni ridicole - l'altra faccia della medaglia della nostra inveterata tendenza a vederci attraverso occhiali colorati. Il fatto che ci mteressiamo ai fumetti - che Jiggs e Mutt e Jeff e Skinnay, e i Gumps siano entrati nella nostra vita non meno di Roosevelt e più a fondo di Pickwick - ci insegna che vale la pena di guardarli almeno mia volta...». Nonostante il suo entusiamo, però, Gilbert Seldes, a un certo momento, era assalito da una qualche perplessità per quanto riguardava i Gumps. Provava a esaminarli da un lato e dall'altro, da questo o da quel punto. E si trovava costretto a confessare che eran davvero persone comuni. «Non sono mai riuscito a capire cosa facciano: sospetto che non facciano nulla. E' come se leggessi ogni giorno colonne di pettegolezzi e mi riducessi a sperare in una storia per il giorno seguente. La campagna condotta da Andy Gump per la propria elezione al Senato dette un modesto corpo al racconto a puntate: Andy era talmente l'uomo del Congresso con tutta quella sua smaccata ignoranza che cominciò ad avere una vita autonoma. Ma, a parte un simile episodio, a parte il disperato grido: "Oh, Min!" nulla è restato della scuola di Chicago salvo il buffo eloquio di Syd Smith e il fatto che Andy non aveva mento. Un simbolo eccellente, d'accordo, ma non basta come pane quotidiano...». «La meno imbellita famiglia» del fumetto esordì su un minale nuovo, lancialo a New York nel 1919 daWintraprendente capitano Patterson: nilustrated Daily News Una volta tanto Gilbert Seldes era ingiusto, proprio lui che nella cosiddetta volgarità dei fumetti affondava i denti con tanta golosità. Ma non a caso Gilbert Seldes era contrario ai Gumps. In qualche modo la sua ostilità mascherava la qualità della sua golosità. Gilbert Seldes era, infatti, uno snob, un impareggiabile - lo si ripete volentieri - ma irrimediabile snob. La volgarità dei fumetti per lui non era cosiddetta, era reale, e più i fumetti erano legati alla realtà, più gli risultavano volgari. Gilbert Seldes era il cantore dello splendore di Krazy Kat, il capolavoro di George Herriman e d'altre sciccherie. I Gumps non potevano piacergli, ammetteva che valesse la pena di guardarli almeno una volta, ma, dopo averli guardati un buon numero di volte, doveva confessare la sua delusione. Irrimediabile snob, e tuttavia sincero - ancora una ragione per considerarlo impareggiabile - Gilbert Seldes non riusciva a simulare un interesse che non provava affatto. Così fu ingiusto con i Gumps uno dei documenti maggiormente illuminanti restatici degli Anni Venti. Gli Anni Venti - se non altro gli Anni Venti negli Stati Uniti - costituiscono un periodo di cui apparentemente è stato detto tutto. Solo apparentemente, però. Le citazioni riguardano, infatti, quasi esclusivamente la superficialità dell'ottimismo, la facile leggenda tipo. La modesta striscia dei Gumps mvita a considerare con occhi diversi il periodo che ebbe inizio l'I 1 novembre 1918, quando alle prime ore del giorno, il presidente Woodrow Wilson, che si vantava di leggere Krazy Kat prima delle riunioni di gabinetto, scrisse a matita su un comune foglio di carta della Casa Bianca il suo candido e incauto messaggio al popolo americano: «Miei cari compatrioti, l'armistizio è stato firmato questa mattina. Tutto ciò per cui l'America ha combattuto si è realizzato. Sarà ora per noi compito gradito dare il nostro aiuto, con sentimenti equilibrati di moderazione e amicizia e con soccorsi materiali per il consolidamento della vera democrazia in tutto il mondo...». Bei propositi, un documento virtuoso che avrebbe potuto firmare anche Abramo Lincoln. E a Lin¬ coln, probabilmente Wilson si era ispirato, buttando giù il suo messaggio di pace e speranza. Lincoln, comunque, fu in un certo senso più fortunato. Ammazzato nel momento del trionfo, non ebbe neppure il tempo di cominciare a temere la sconfitta degli ideali. Wilson, invece, stroncato da una trombosi cerebrale, costretto dalla paralisi alla carrozzella, ebbe il tempo di rendersi conto della probabilità della sconfitta, anche se sino all'ultimo si rifiutò di ammetterla: la condanna del grande sogno candido e incauto. L'I 1 novembre 1923, sorretto a braccia sulla soglia di casa, ad ogni modo era sempre in grado di affermare ai convenuti per rendergli omaggio: «Non sono tra quelli che nutrono il henché minimo dubbio sulla sorte dei princìpi che hanno sostenuto. Ho visto con i mei occhi certi stolti resistere dapprima alla provvidenza e poi essere annullati, così avverrà pure per costoro: una distmzione completa, accompagnata dal disprezzo. Perché noi vinceremo, come è vero che Dio esiste...». Tre mesi dopo, la morte fu finalmente misericordiosa per lui, e se lo prese. Avvoltolan¬ ti/ idy Cump potrei apparire ridicolo, ma non s'inchina; potrò apparire povero, ma è astuto e coraggioso» dosi nella superficialità della facile leggenda tipo, i fervidi Anni Venti si avviavano già verso l'inevitabilità della catastrofe finale. I Gumps si imposero su un giornale nuovo, lanciato a New York il 26 giugno 1919 dall'intraprendente capitano Joseph Patterson, l'Illustrated Daily News. Il capitano Patterson - che, insieme con il cugino colonnello Robert McCormick aveva dato vita con successo al Chicago Tribune - aveva deciso di tentare un'mcursione nella tana di Pulitzer e di Hearst e aveva chiamato a raccolta ogni risorsa in suo possesso. Non ultima tra le sue risorse, anche se occupava uno spa¬ zio non eccessivo, la striscia dei Gumps di cui il capitano Patterson non si limitava ad essere l'editore. Almeno nelle sue chiacchiere, a Syd Smith era riconosciuta solo la realizzazione grafica. Il capitano Patterson si vantava di aver concepito la striscia e di averla pure battezzata. Gli editori sono tutti uguali: non si accontenteranno mai di guadagnare sul sudore altrui. Oltre al guadagno vogliono la gloria della genialità. E, d'altra parte, Syd Smith alla gloria ci teneva solo sino a un certo punto. Teneva di più al guadagno, si batteva per il migliore contratto possibile. Syd Smith veniva dal Middlewest. Aveva cominciato a lavorare nel Sun Eye di Bloomington, Indiana. Poi aveva lavorato a Indianapolis, Toledo, Philadelphia e Pittsburgh prima di approdare a Chicago. La striscia con cui Syd Smith aveva esordito al Chicago Tiibune era intitolata Old Doc Yak. Ma Syd Smith aveva cominciato presto a parlare con il capitano Patterson di una striscia sulla famiglia americana, medio ceto al cento per cento, l'americano medio per antonomasia e i suoi. Così vennero fuori Andy Gump e i suoi. La prima uscita del Daily News esibì anche la comic strip The Gumps, «la meno imbellita e la più tipica famiglia dei fumetti americani» come la definì il caro Stephen Becker nel suo insuperabile studio Comic Art in America (Simon &• Schuster, New York, 1959), rendendo ai personaggi di Syd Smith la giustizia negata loro da Gilbert Seldes: «Se Andy Gump fosse reale sarebbe un mostro - non ha mento né capelli, la sua bocca è una fessura sotto i mustacchi da orecchio a orecchio -. Non è reale e non sono reali le specifiche avventure della famiglia Gump. Ma i moventi che animano i Gumps sono reali, realissimi, sono i moventi che animavano gran parte delle famiglie americane negli Anni Venti, e continuano ad animarle. Sono quelle cose che si tende ancora a definire come le "antiche virtù americane". Ambizione è una, orgoglio è l'altra. Andy potrà apparire ridicolo, ma non s'inchina a nessuno; potrà apparire povero, ma è astuto e coraggioso quanto il miliardario Uncle Bim...». Oreste del Buono BAOLO U B BUON CLINTON NON MENTE Scrivete a: Stefano Bartezzaghi «La posta in gioco» La Stampa - Tuttolibri via Marenco 32 10126 Torino BAOLO Umberti (Milano) stava sfogliando il giornale di un'associazione di produttori di vino quando ha visto la foto del Presidente degli Stati Uniti con in mano un calice di spumante. Titolo: «Clinton beve Zonin» (questa era la marca del vino contenuto nel bicchiere presidenziale). Ci si immagina subito, mi dice Umberti, la situazione rovesciata: un signore con in mano un bicchiere di vino rosso, e il titolo: «Zonin beve Clinton». Bisogna sapere che quello che in certe osterie viene ordinato come clinto, ma il bradisismo fonetico può condurre fino a grinta, in realtà è il Clinton: tipo di vino fragolino e andante, proibito in forza di non so quale disposizione regolamentare o grida, e però regolarmente contrabbandato da qualche mescita. Non parlo a caso di «grida». Mi scrive Mario Lago (Santa Margherita Ligure, Ge): «E' nota la cultura rurale del Manzoni, che ha un esempio mirabile nell'episodio della vigna di Renzo; uno tra i suoi progetti, poi abbandonato, era un trattato di viticoltura e a lui si deve l'introduzione in Italia dall'America del vitigno del "clinton", il quale si sviluppa molto bene nel terreno pietroso della pianura lungo il Piave». Lago poi si lancia in un paragone fra il vino che migliora con il tempo, e l'omonimo presidente americano che con il tempo sembra (a Lago) acquistare popolarità. Qui non lo seguo più. Passando dal vino al suo contrario, non credo che gli sviluppi del caso Whitewater lascino molto tranquillo il Clinton-presidente; e del resto mi risulta che il Clintonvino non voglia affatto invecchiare, e vada consumato di gran fretta. Il paragone quindi lo boccerei. Resta l'omonimia e resta l'inatteso ruolo manzoniano nella vicenda (al Manzoni casomai si attribuiva l'importazione della robinia, ma la questione è vessatissima e fra cultura e coltura è difficile districar¬ si). Comunque il nome del vino e il nome del presidente dovrebbero derivare entrambi dalla cittadina americana di Clinton. In Italia abbiamo avuto un presidente produttore (Einaudi), un presidente caramella o a miscela caffeinica (Leone), un presidente a sciarada enotecnica (Per-tmi). Già che son qui con la lettera di Lago e i dizionari inglesi, provo a esplorare le possibili risposte a una domanda del gentile lettore: perché in inglese si dice padre e non father, nei significati religiosi dell'appellativo (sia cattolici che protestanti)? Per la verità la questione deve essere un po' più articolata di così, se la Stampa del 12 giugno parlava di Father Ted (Father, non Padre), una sit-com inglese su un prete irlandese. Il dubbio di Lago non è un problema per i vocabolari, che si limitano a registrare il fatto. L'Oxford etimologico aggiunge il fatto che il termine italiano (ma lì lo si dice anche spagnolo e portoghese) è entrato nel- P.R.JA'Mtr?' SANGUE INNOCENTE no GcoreKJo chf vomtmcA la sirre-K a ha PORTATO fi RPANZATo IN CACA C vvvm a e Nor cuf li CREAVAMO , ALLA MF^A M FRA < AA I ì I LA VIGNETTA DI MARAMOTTI l'uso anglosassone nel sedicesimo secolo. La cosa più bella è l'indicazione della pronuncia: «pà-drei». Del resto Padre non è l'unico termine italiano che sia passato in inglese, anche se quello fra le due lingue non è certo un caso di import-export molto equilibrato. Io mi sono sempre chiesto come mai Samuel Beckett avesse intitolato Cascando (in italiano) una sua poesia e una sua pièce teatrale. Gabriele Frasca, che è poeta e ha tradotto Beckett con viatico del¬ l'autore, mi ha assicurato che Beckett intendeva cascando come termine musicale, una cosa come crescendo o calando. Sempre Lago, e sempre in tema di transiti da lingua a lingua, rende noto che in arabo Stefano diventa El Mustafà, che il cognome tedesco Schneider (sarto) è diventato l'italiano Snaidero e che fu per la sgradevolezza dell'assonanza se, dall'originale destinazione italiana, il diplomatico romeno Pitalescu venne dirottato altrove (a Lago, quest'ultimo aneddoto proviene direttamente dal rinomato glottologo Tagliavini). Clausola anagrammatica su due delicati casi politico-giudiziari. Giorgio Ponti (Roma), «in un momento di insonnia» ha anagrammato il nome e il cognome di Stefania Ariosto, trovando un esito amletico: storia o fantasie? E' una testimone a conoscenza di fatti reali o si è inventata tutto? Una possibile risposta si trova unendo le iniziali della signora. «Stefania Ariosto sa». Negli stessi giorni, in un momento in cui dormivo in piedi, ho letto un articolo che riportava il testo della contestazione di un reato a un inquisito di Tangentopoli. Egli avrebbe occultato la «creazione, gestione e utilizzazione di ingenti disponibilità extracontabili». Che parola seducente extracontabili. Se la anagrammiamo, però, piove sul bagnato: al Bettino Craxi. Stefano Bartezzaghi i