LE PREVISIONI DI ZANZOTTO

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Alessandro Fo Lf ELEFANTE e la lepre di una miniatura esotica campeggiano in copertina a un brillante romanzo di Fabio Troncanelli sul mondo degli eruditi, Memorie di un paleografo (Edizioni scientifiche italiane). E' un'allegoria dell'agilità con cui la sua scrittura svicola, divertita ma anche pensosa, fra i mastodonti della dottrina storica e filologica. Chi preferisca il loro severo fascino algebrico può rivolgersi invece alla tetterò intorno a' manoscritti antichi ( 1573) di Vincenzio Borghini, curata da Gino Belloni per la Salerno Editrice. LE PREVISIONI DI ZANZOTTO Un «Meteo» per la natura malata IECI anni fa usciva l'ultima raccolta di versi di Andrea Zanzotto, Idioma: chiudeva una vasta produzione poetica che aveva trovato un suo consistente assesto in tre significative stazioni, Galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma appunto (1986). La trilogia, con mirabile cortocircuito espressivo, intensa condensazione e attivazione della parola, cercava una sorta di ritorno alle origini del linguaggio, quello che emana da sostratiche e buie matrici. Dalle avanguardie Zanzotto ereditava la coscienza dell'usura della lingua, ma l'atto poetico continuava ad essere per lui una profonda, sofferta esperienza gnoseologico-esistenziale. Ora, nella nuova collana di Donzelli, è comparso Meteo, dopo dieci anni di silenzio: venti componimenti, «uno specimen di lavori in corso, che hanno un'estensione molto più ampia» (l'avverte una nota al testo), una «previsione» di ciò che Zanzotto sta elaborando: enigmi tormentosi, nuovi misteri, nuovi dubbi e ricerche si insinuano, in un paesaggio (il suo) mutato e mutante, in uno scenario intorno di guerre crudeli, di stragi e di insidie, in una natura comatosa dove «indaco e cobalti di coma» stanno avvezzandoci a inediti colori, a nuove albe e sere. Ci era familiare lo Zanzotto radicato nel suo paesaggio-contrada, l'isola che preserva e accoglie, e che gli ha offerto temi, orientamenti, come un «idioma» sotterraneo capace di avviluppare con fili misteriosi letteratura e vita, storia e natura. Ora l'intrico del paesaggio si è come fatto canceroso, una propaggine vegetale lo aggroviglia, c un altro intrico invisibile, babelico e insidioso, soffoca con raggi maligni l'etere e il creato, i cieli e la terra. ce quei vividi «tuffi di giallo» dei topinambùr, o del tarassaco che popola i prati di «giallori», poi di «globi di pappi», di «lanugini di lai leni», di «vibratili trappole» per la luce, di papaveri gloriosi, follemente invasivi, come pozza di sangue, un'allegoria di stragi. La natura soffre di una perdita, di una «pace di prato» svanita, di disastri incombenti (l'«assaltante, da ovunque, viola»). Il paesaggio è «eroinizzato», «slombato», piogge acide incombono su primavere buie, raggi maligni, ticchettii sinistri lo percorrono, come «grilli inaudibili» che soltanto il contatore Geiger rileva, il disastro da Cernobil ha ripercosso le sue deflagrazioni in un numero enorme di silenziose metastasi. La «matria» si è fatta«stuprio», ota virando nel malato, in mutazioni mostruose, zanzare-tigri letali, zecche infettanti, dappertutto c'è agguato, sospetto, malattia, enormi Meteo si apre con una poesia scritta a mano, «in diretta», Live, sul «superfluo / superfluente» dilagare di una pianta parassita, la vitalba, e l'orgia di vitalbe che «parassitano gli occhi», si manifestano nelle «dirette» e nei «Balocchi» eruttati dai teleschermi. Già il titolo «televisivo» del libro (preso dalla parola che intesta il servizio quotidiano sulle previsioni del tempo) allude all'esistenza (e alla parola) soffocata da quel mezzo potente e pervasivo, lascia prevedere tema e ordine dei componimenti (che è difatti quello «meteorologico»). Si parla di piogge, di verde zuppo di acque, di gelo invernale con «ermi» gelsi, nude «erme dei prati», di sole che produ¬ ce quei vividi «tuffi di giallo» dei topinambùr, o del tarassaco che popola i prati di «giallori», poi di «globi di pappi», di «lanugini di lai leni», di «vibratili trappole» per la luce, di papaveri gloriosi, follemente invasivi, come pozza di sangue, un'allegoria di stragi. La natura soffre di una perdita, di una «pace di prato» svanita, di disastri incombenti (l'«assaltante, da ovunque, viola»). Il paesaggio è «eroinizzato», «slombato», piogge acide incombono su primavere buie, raggi maligni, ticchettii sinistri lo percorrono, come «grilli inaudibili» che soltanto il contatore Geiger rileva, il disastro da Cernobil ha ripercosso le sue deflagrazioni in un numero enorme di silenziose metastasi. La «matria» si è fatta «stuprio», ota virando nel malato, in mutazioni mostruose, zanzare-tigri letali, zecche infettanti, dappertutto c'è agguato, sospetto, malattia, enormi calabroni-cecchini sorvolano fuggiaschi, anche il sole è «furia ultravioletta», ogni bacio un bacillo. Ciò che vivifica uccide. Anche il giallo dei topinambùr è filiazione infida di una luce diventata più irta, ogni presenza cara di erbe umilissime può tramutarsi in scempio. La forza di Meteo risiede a mio avviso in questa ambiguità tra vita e morte, tra apocalissi e bellezza, tra violetto malato e solarità vivificante, tra indizi, inizi di vita (i «Mani» che potrebbero intervenire forse a riannodarci a terrestri, «purissime albe») e preannunci della fine, ora che la sera del secolo è giunta. Gian Luigi Beccaria SPAZIANI. UN'ORTICA SUL VELLUTO Li io.scena rio dì guerre, siimi, insidie, disastri: //paesaggio si è fallo «canceroso, eroinizzato, slombato-, piogge acide incombono su primaven buie, anche d soie è «furia ultravioletta», orni bacio un bacillo OSCURE Gian Piero Bona Piero Manni pp. 116 L. 22.000 POESIE (1980-1992) E ALTRE POESIE Valerio Magrelli Einaudi pp. 322 L. 28.000 CONGEDO DELLA VECCHIA OLIVETTI Gianni D'Elia Einaudi pp. 104 L 16.000 INCANTI DI BONA MAGRELLI E D'ELLA ENTORNATA rima baciata». E' il titolo di un intervento di Giorgio Calcagno nel «Tuttolibri» di qualche settimana fa. Poeti che nelle ultime opere tornano a far conto e conteggi di metrica, poeti che tornano alla rima dopo averne fatto lungamente a meno. Ma soprattutto poeti che, insieme con la metrica e la rima, tornano a una chiara volontà di dire, o meglio ancora, a una chiara volontà di dire chiaro: quella che i semiologi chiamerebbero, e che un poeta come Zanzotto ha chiamato, «dichiarata referenzialità». Il meridiano della poesia, insomma, che passa per l'equatore del senso. Attenti dunque all'ultima raccolta di Gian Piero Bona, Oscure, appena pubblicata da Piero Manni, è il h l perché è un titolo che va letto al contrario. In queste poesie c'è una trasparenza che è ritorno da un viaggio nel profondo, e che corrisponde a un avviso di Rilke posto sulla soglia («le cose' oscure sono manifeste»). Il tono è come di «canzonetta» e la linea Saba-Penna s'incrocicchia con quella più tedesca, più mitteleuropea, e insieme più classicistica e mediterranea che va appunto da Rilke a Trakl: «Beato chi ripesca nelle acque / la sua anima dal fondo: / riporta a galla ciò che gli piacque / e recupera il senso del mondo». Una trasparenza che resta naturalmente legata al suo mistero, giocata sui risvolti di una realtà piena di meraviglia («C'è sempre qilaitosa" a cui la ragione / s'arrende»). E poetare diventa cercare la musica che si tende tra «oggetto e parola» e che s'in¬ tride di sottili ironie. Cogliere nella sua essenzialità l'incantesimo del mondo racchiuso (come in un ossimoro) nella tragica compresenza di miseria e di bellezza. In forme per lo più brevi Bona dà voce a tutto un mondo di sosia, di doppi, di fantasmi annunciati: una fitta trama di echi ombre riverberi riflessi, che si traducono in illuminazioni frequentemente epigrammatiche. Come suggerisce didattico Lo spazzino visitato dall'alito di Dio, il senso delle cose abita nei bidoni della spazzatura. Su un equilibrio naturalmente precario e azzardoso si muove anche il mondo poetico di Valerio Magrelli, che raccoglie da Einaudi in Poesie (1980-1992) e altre poesie il suo (per ora) intero percorso poetico, a partire da Ora serrata retinae, con cui esordì da Feltrinelli nell'80. E' un mondo rimasto fedele a se stesso, ma che tende soprattutto nell'ultima parte, nelle poesie degli Esercizi di tiptologia e oltre, a trasformare la forma in fuoco, a fare della geometria un falò. Come noi famosi sacchi di Burri, se «combùrere» ò parola (latinissimal elio appare non certo a caso noi primo componimento degli Esercizi. Si passa qui dall'ambizione, espressa in diversi modi e a più riprese, di «rendere in poesia / l'equivalente della prospettiva pittorica», alla coscienza di un'ustione necessaria, che ha nel piccolo poemetto finale di Chil dren's corner (pieno recupero della rima e dintorni) il suo documento più probante: «Con te ho ricomposto la forma / che avevo ceduto alle tenebre / scoprendo la mia immagine / e insieme scorgendola in cenere». Del resto in Magrelli la linea non è mai l'esile segno di un tracciato incorporeo, ma se mai l'avviso di un altrove che pur incardinandosi nel sangue e nel cuore rifugge da un colorismo ad effetto e dal gusto delle parole assaporate. La sua è una poesia di teologie, archeologie, morfologie, cosmologie, archetipi, opposizioni binarie e simmetrie fondamentali, che legano corpo e pensiero, silenzio e voce. I suoi versi ambiscono a stare sulla pagina «come vessilli»: «Semplicemente sventolano, / sono linee e contorni, / sono il panno e la forma». Di più immediato legame con la responsabilità etica e politica del suo messaggio l'ultimo libro (l'orso, dei suoi, il più unitario e compattol di Gianni D'Elia, Congedo della vecchia Olivetti (Einaudi), dove c'è da registrare il massimo di corrispondenza tra parola e realtà, tra suono e senso, tra forma e contenuto. Fortinianamente, niente valore autonomo della poesia malridotta a sacerdozio. Ma soprattutto (Fortini più Pasolini più Giudici) fedeltà ad un doppio registro di biografia e di impegno, di storia personale e collettiva, di diario e di profezia: «La mia non è // una generazione che non ha sognato: ha sognato / male, senza saperlo, senza la coscienza e la cultura / e la poesia che sono necessari al sogno / per non divenire incubo, coazione a sognare, // a non svegliarsi...!». Nel dialogo con la propria Lettera 32 D'Elia è attento all'impoetico e al prosastico, da cui scaturisce una concezione poetica come discussione in rima. Anche se la rima in lui non è quasi niente se non se ne coglie, come in ogni discussione appassionata, il valore di salto e di irregolarità piuttosto che di norma e di continuità. Più ferita che risarcimento, più solco che sutura. Nella sua fascinosa e varia «prosopopea» (anche Caproni entra nella cerchia coerente dei maestri) D'Elia gioca la rima come percussione del reale, come un'esatta e «amorosa / irregolarità da ritmare». Più che mai, nel suo mondo, la rima è la cosa. Giovanni Tesio EGLIO l'ortica guerriera die la rosa trionfante cantata dai (Mieti. Meglio essere fiore, conservando l'innocenza dell'infanzia, che vivere da flutto guardando solo alle realizzazioni pratiche. E, ancora meglio, mettere il genio nell'uso del tempo. Per il resto, il talento. Lo dice in versi Mariti Luisa Spaziali! ne Ifasti dell'ortica, una raccolta che a dieci anni da La stella del libero arbitrio pare riassumere le sue molte maniere mtrecciando contemplazione, umorismo, discorsività, esperienza vissuta e impegno civile. Dagli interrogativi esistenziali e metafisici di .Verticali alle note di Poetica: dalle emozioni di Paesaggi alla memoria di Amori o del Viaggio Verona-Parigi; e infine dalla testimonianza di Politiche alla quotidianità di Ore del Babuino, la l'accolta pubblicata nel Nuovo Specchio di Mondadori si snoda con levità in brevi, taglienti componimenti - apologhi ed epigrammi soprattutto - prima di concludersi col racconto emblematico de Le due toni costruito nel deserto per spiare l'arrivo del Messia. Tra affetti familiari e amicali, lampi di ironia o di sdegnata, disarmata, amarezza nei confronti dell'attualità violenta, ma pure di sensuale evocazione di situazioni appaganti e attimi di profonda meditazione, mentre si delinea il dentro e il fuori affiora una visione del mondo in cui la fortissima tensione vitalistica dell'autrice è sostenuta, alimentata con ingordigia si direbbe, da un'idea di poesia come nutrimento irrinunciabile. Ma perché per quest'opera di approdo, Spaziani ha scelto ad emblema proprio l'ortica ina di aculei spinosi su un letto di velluto! Perché considera la sua zarina l'erba che servi a sfamare una disperatissima Marina Cvetaeva? «E' l'unica pianta ricca di simboli su cui i poeti non abbiano messo un'ipoteca. Come dice il Vangelo, si allarga ai quattro venti dello spirito, ai quattro punti cardmali mentre le altre sono unidirezionali. E' isolata, I cresce tra le rovine, non si vende e i non si compra, perciò non si pre- j sta a nessun lenocinlo. Mi piace per questo, ma tra me e l'ortica non c'è nessun processo di identificazione». C'è invece un'associazione ortica-poesia? «La poesia è la meno aiutata delle arti. Eppure può servire a scoprire la vita, ad affrontare l'angoscia dell'assurdo, U senso del mistero che ci circonda. E non ò poco, ma la maggior parte della gente la sfugge: nasce, vive e muore senza mai esseie sfiorata dagli interrogativi che essa pone. La grande colpevole è la scuola. Non ho mai incontrato un professore che sapesse insegnare la poesia, che sapesse spiegare, per esempio, la dinamica interna della terzina dantesca o perche un essere umano ha scelto di esprimersi in una forma tanto diversa da quella corrente. La poesia è come l'ortica per l'isolamento in cui cresce. Nei bilanci del ministero della Cultura ci sono miliardi e miliardi per il teatro, la musica, le mostre e anche per i circhi, il che mi pare un'indecenza quando non si fa nulla per un'arte che ha una capacità esplosiva di comunicazione. Bisogna aiutare la gente a entrare nello stato d'animo per capirla. Il Centro Montale che dirigo da 14 anni si batte per attirare soprattutto i ragazzi verso l'universo magico della poesia». In quest'ultima raccolta tornano con insistenza serene immagini cimiteriali, interrogativi sull'aldilà, e sull'ipertempo. Il sottotitolo di Verticali è «ipotesi su Dio». Una conversione in atto? «La preoccupazione metafisica l'ho sempre sentita anche se la mia non e una poesia religiosa né io posso dirmi una cattolica convinta. Vorrei violentemente essere credente osservante. Pero l'intelligenza critica, umoristica o altroforse me lo impedisce. Il mio massimo punto di comunione con una problematica simile è avvenuto con la Giovanna d'Arco. Nelle Vite che la riguardano mi aveva colpito la sua fusione fisica con l'idea dDio al punto che quando credeva di essere condannata al rogo, l'idea di poter assistere alla messa ancora una volta e ricevere la comunione la trasfigurava, era la sua gioia massima anche di fronte al pericolo di bruciare viva. Per una come me che ha vissuto profondamente la sua storia, questo non può non aver lasciato segniAlla mia religiosità dò il senso che Rilke dava alla ricerca di Dio come direzione. E' un metterei su un cammino senza sapere bene cosa ci sia all'altro capo. Il fatto è che mi piacerebbe moltissimo non essere un semplice fenomeno, una combinazione chimica». E i suoi versi vengono di getto, o sono il risultato di laboriose combinazioni? «Vengono in modo molto istintivoHo scritto i 1400 versi de In Gio vanna d'Arco con furia in soli trentuno giorni. Una mia preoccupazione è far combaciare il tono alto della poesia con il linguaggio comune capace di evocare e suggerire senza nominare la cosaCredo all'occasione come la intendono Goethe e Montale, e cioè a una so>ta di momento visibile e illuminante che è solo la fine di un lungo processo conscio e inconscio di sedimentazione di emotività personale, la forma poi viene dalla cultura che deriva dalla tradizione ma che ogni poeta muova per proprio conto». Ne Ifasti dell'onica non potevano mancare dei versi dedicati a Montale. «Un amico e non un maestro», con cui Spaziani confessa «un sodalizio intellettuale di quattordici anni». Quanto al resto, «è troppo complesso per affidarlo alle battute di un'intervista». Ma allora perché consegnare alle pagine di un rotocalco le lettere d'amore che le scrisse il poeta? Che avesse proprio ragione a chiamarla la volpe? Paola Decina Lombardi «La preoccupazione metafisica l'ho sempre sentita anche se la mia non e una poesia religiosa né io posso dirmi una cattolica convinta. Vorrei violentemente essere credente osservante. Pero l'intelligenza critica, umoristica o altro, forse me lo impedisce. Il mio massimo punto di comunione con una problematica simile è avvenuto con la Giovanna d'Arco. Nelle Vite che la riguardano mi aveva colpito la sua fusione fisica con l'idea di Dio al punto che quando credeva di essere condannata al rogo, l'idea di poter assistere alla messa ancora una volta e ricevere la comunione la trasfigurava, era la sua gioia massima anche di fronte al pericolo di bruciare viva. Per una come me che ha vissuto profondamente la sua storia, questo non può non aver lasciato segni. Alla mia religiosità dò il senso che Rilke dava alla ricerca di Dio come direzione. E' un metterei su un cammino senza sapere bene cosa ci sia all'altro capo. Il fatto è che mi piacerebbe moltissimo non essere un semplice fenomeno, una combinazione chimica». E i suoi versi vengono di getto, o sono il risultato di laboriose combinazioni? «Vengono in modo molto istintivo. Ho scritto i 1400 versi de In Gio vanna d'Arco con furia in soli trentuno giorni. Una mia preoccupazione è far combaciare il tono alto della poesia con il linguaggio comune capace di evocare e suggerire senza nominare la cosa. Credo all'occasione come la intendono Goethe e Montale, e cioè a una so>ta di momento visibile e illuminante che è solo la fine di un lungo processo conscio e inconscio di sedimentazione di emotività personale, la forma poi viene dalla cultura che deriva dalla tradizione ma che ogni poeta muova per proprio conto». Ne Ifasti dell'onica non potevano mancare dei versi dedicati a Montale. «Un amico e non un maestro», con cui Spaziani confessa «un sodalizio intellettuale di quattordici anni». Quanto al resto, «è troppo complesso per affidarlo alle battute di un'intervista». Ma allora perché consegnare alle pagine di un rotocalco le lettere d'amore che le scrisse il poeta? Che avesse proprio ragione a chiamarla la volpe?

Luoghi citati: Parigi, Verona