«La mia verità su piazza Fontana»

«Quel giorno vennero utilizzate 6 cellule Guido Salvini da sette anni indaga sull'attentato del 12 dicembre 1969 «La mia verità su piazza Fontana» Il giudice: le stragi dovevano portare al golpe INTERVISTA IL GIUDICE PARIA PER LA PRIMA VOLTA SROMA I', le indagini stanno arrivando a una parte consistente di quella verità sulle stragi che gli italiani aspettano da quasi trent'anni». Il giudice Guido Salvini pesa le parole. Da sette anni indaga su Ordine Nuovo, sulla strage di piazza Fontana e gli altri attentati di quell'infernale 12 dicembre del 1969. Salvini ha scoperto episodi e individuato responsabili, ma la sua inchiesta procede fra difficoltà e lui stesso è sotto inchiesta per aver fatto ottenere la protezione del Sismi al più importante e vulnerabile dei suoi testimoni diretti. E cioè quel Martino Siciliano, primo pentito di Ordine Nuovo, che ha accettato di parlare anche con il pm Predella, i pm bresciani che indagano sulla strage di Brescia e il giudice istruttore Antonio Lombardi che si occupa della strage alla questura di Milano in via Fatebenefratelli del 17 maggio 1973. Questa è la prima intervista del giudice milanese. Dottor Salvini, dalle sue indagini emerge chi ha messo le bombe del 12 dicembre 1969 a Milano e a Roma? «Negli atti c'è ormai quasi tutto, mancano davvero pochi dettagli». Comprese le identità di chi fabbricò, fece esplodere e commissionò le bombe? «Noi disponiamo di testimonianze che indicano chi e come ha fabbricato e fatto esplodere quelle e le altre bombe». Da quanto tempo dura la sua inchiesta? «Da oltre sei anni. Ma non è la mia inchiesta personale: c'è al lavoro un gruppo di magistrati e di altri servitori dello Stato...». Lei finora non ha mai parlato. Perché oggi accetta? «Perché spero che il valore del lavoro svolto da tutti gli investigatori che hanno lavorato con me, prima di tutto i carabinieri del Raggruppamento operazioni speciali e il Sismi, venga compreso e tutelato». Quando si sente dire che c'è di mezzo il Sismi siamo abituati a fare un passo indietro, di diffidenza. «Lo so. Questo dipende dal passato. Ma proprio a causa di questo passato, oggi è fondamentale che si passi dal pregiudizio all'informazione corretta e si eviti la disinformazione». C'è chi pratica la disinformazione? «Sì. Notizie che devevano rimanere segrete sono state fatte filtrare alla stampa, con gravi danni alle indagini». Scusi, partiamo del punto essenziale: chi mise la bomba di piazza Fontana e perché? «Alla domanda così posta io non posso rispondere come se fossi un giornalista. Le rispondo da giudice istruttore. E le garantisco che nelle nostre carte, ora al vaglio della procura della Repubblica di Milano, ci sono le risposte che vengono fornite da testimoni». Che genere di testimoni? «Assolutamente affidabili: le loro dichiarazioni sono state controllate fino al minimo dettaglio: il colore di una vettura, la scritta su una scatola di munizioni, il monocolo di un generale presente a una certa riunione, il titolo di un film visto dal gruppo operativo subito prima di deporre una bomba di prova al cippo di confine jugoslavo, in un cinemetto parrocchiale. E' una storia buffa: partimmo dal vago ricordo, vent'anni dopo, di un film in cui c'entrava in modo confuso un leone. Voglio dire: ogni investigatore sa che è nei dettagli che si nasconde il diavolo, ma è proprio nei dettagli che si riscontra la verità». E lei l'ha raggiunta? «Siamo vicinissimi alla soluzione finale. E' il momento in cui la verità è a portata di mano, è il momento che l'opinione pubblica sappia, legga, domandi». E qual era quel titolo di quel film? «Si chiamava La realtà romanzesca. Vede? Sembra uh romanzo di Simenon. Invece è la strategia della tensióne». Insomma, lei ha trovato una nuova pista? «No. Abbiamo ripercorso la vecchia pista: Freda, Ventura, Ordine Nuovo, servizi segreti italiani e stranieri. Quella di sempre, usando e partendo dal lavoro di tanti bravissimi colleghi. Siamo andati avanti su quella strada e abbiamo fatto un bel percorso, mi creda». E' vero che si chiama Martino Siciliano,r«uomo di Toulouse», il vostro testimone chiave? «Martino Siciliano è quello che ci ha consentito di mettere le architravi dell'inchiesta, di conoscere per la prima volta dall'interno la struttura occultar di Ordine Nuovo in Veneto dal 1965 in poi e di convincere indirettamente altri a parlare, grazie al fatto che per primo Siciliano aveva aperto la breccia nel muro dell'omertà». E' vero che Martino Siciliano è stato l'artificiere di piazza Fontana? cNo, in questi termini non è esatto. Lui fu escluso dal gruppo operativo dopo gli attentati preparatori di Trieste e Gorizia nell'ottobre 1969, in cui furono usati sei chili di gelignite, più di quanta ne fu usata a piazza Fontana. Ma Siciliano quel 12 dicembre seppe subito e capì perfettamente ciò che era avvenuto». Dunque Siciliano restò nell'operazione fino a un certo punto. «Si, ma fu testimone diretto di molti avvenimenti. E diventò presto controllato dai suoi camerati, perché aveva una personalità che non garantiva quel genere di fanatismo assoluto degli altri». Giudice Salvini. Queste novità alimentano grandi attese, ma un'ombra grava sulla sua indagine. Lei è sotto inchiesta perché il giudice Cassou l'ha accusata di agire in combutta con i servizi segreti per depistare le indagini e salvare hi «Gladio». Come si difende? «Dicendo che non soltanto non abbiamo depistato, ma che siamo rimasti sulla stessa pista a suo tempo imboccata dai migliori magistrati, da Stitz a D'Ambrosio a Tamburi-ino, Vigna e tanti altri facendo enormi progressi coerenti con quelle inchieste». Ma la famosa e malfamata Gladio, c'entra? «Per nulla. Intendiamoci: noi ci riferiamo ai risultati raggiunti oggi. Però sono trascorsi sei anni, Gladio e gladiatori sono stati passati al setaccio da tutti noi e non è mai saltato fuori niente». Dunque lei è ripartito dalle vecchie piste? «Certo, da parecchi spunti di indagine. Uno fu il gruppo di Ordine Nuovo milanese "La fenice" che era stato molto sottovalutato e di cui non erano mai emersi i rapporti organici sin dal 1968-1969 con le cellule padovane e veneziane. Elementi importanti sono stati forniti da Vincenzo Vinciguerra, autore dell'attentato di Peteano, il quale ci mise sulle tracce degli ordinovisti che lui, nazional-rivoluzionario puro, scoprì "inquinati" dalle collusioni con lo Stato. Poi dall'intuizione che ebbe un giornalista su un oscuro ma fondamentale personaggio che veniva indicato come Uomo di Toulouse": per l'appunto Martino Siciliano». E chi è Delfo Zorzi? «Un uomo che secondo le testimonianze, non soltanto quella di Siciliano, ha cercato in tutti i modi, con telefonate di ore e ore da Tokyo e con emissari, pròmesse, minacce, di impedire a Martino Siciliano e ad altri suoi camerati di diventare un testi¬ mone dello Stato. Si ricordi che Delfo Zorzi, come è emerso in un altro processo, prestò 30 miliardi a Maurizio Gucci pronta cassa, per salvarlo dal crollo delle sue società». E dei mandanti che cosa ci dice? Ha qualche idea? «Oh sì: molte idee. Ma ci vuole cautela. Sarebbe facile dire: i mandanti furono questi o quello. Io questo non.posso farlo, lei lo capisce. Però diciamo, così : siamo in gradò di inchiodare chi controllava senza impedire». : Dunque c'era qualcuno che quel 12 dicembre avrebbe potuto impedire, ma non lo iece. Però potrebbe esserci di mezzo rimbecillita... «Ma quale imbecillità: c'era di mezzo un'intera rete di un servizio segreto straniero che controllava tutto quello che avveniva. E quello che avveniva era manualmente attuato da esponenti di Ordine Nuovo in Veneto». Dicendo servizi segreti stranieri lei intende la Cia? «Possiamo dire che noi sappiamo benissimo chi assisteva ài preparativi e sedeva allo stesso tavolo sul quale si fabbricavano Sili ordigni delle stragi. Questa è a verità». Dottor Salvini, lei dunque sostiene che la Cia eseguì la supervisione delle stragi del 12 dicembre 1969? «E'tutto già scritto nella nostra prima ordinanza. Io allora parlai di un controllo senza repressione. Oggi aggiungo che ci fu un controllo dol fiato sul collo, molto molto da vicino». La sua inchiesta porta dunque di nuovo a Freda e Ventura. Come mai? «Perché i nomi di queste due persone ricompaiono nelle testimonianze con grande evidenza». Ma ormai non possono essere più processati... «Infatti, ora non sono più giudicabili. Ma forse l'esito del processo in cui furono assolti per insufficienza di prove sarebbe stato diverso se le prove di oggi si fossero sommate alle vecchie». Insomma, si può finalmente sapere che cosa successe quel giorno a piazza Fontana? «Piazza Fontana non fu che l'episodio più clamoroso e sanguinoso, perché lì si realizzò l'atto più violento di una progressione messa à punto da tempo». Quanto tempo? «Tutto cominciò con un pubblico convegno della destra eversiva che si svolse a Roma nel 1965, il Convegno dell'Istituto Pollio finanziato dal Sifar. Tema: la Guerra Controrivoluzionaria. Cioè la guerra di difesa dell'Italia dal comunismo, con ogni mezzo». Non le pare bizzarro che la . strategia della tensione fosse annunciata con un «Non tanto:;erano morto sicuri del fatto loro, e sicuri che fosse ahchej.ora di uscire. al|o scoperto .cercando un certo consenso politico. Ma accanto al convegno^ sviluppava una organizzazione segreta copiata dall'Oas, la rete segreta francese la cui esperienza si era appena conclusa. Quindi fu messa sul terreno una organizzazione di cellule terroristiche per compiere attentati». E quel 12 dicembre quante ne furono impiegate di Seste cellule terroristie? «Cinque o sei: in tutto un trentina di persone. Tutte militanti nella struttuta occulta di Ordine Nuovo e altri gruppi di estrema destra». E' la solita vecchia strategia della tensione. «Con molti elementi nuovi. Più che della tensione, piazza Fontana fu un episodio della strategia del colpo di Stato». Cioè lei sostiene che l'obiettivo non era una tensione che compattasse la politica al centro, ma portasse direttamente al colpo distato? «Ci furono entrambe le componenti. Le stragi dovevano portare al golpe. Prova ne sia che la struttura di civili e militari che doveva realizzarlo, e cioè i Nuclei di Difesa dello Stato, era già pronta nel '65. Non a caso Preda e Ventura sono stati condannati in via definitiva per aver inviato nelle caserme 2000 volantini che incitavano i militari a unirsi nella lotta finale al comunismo». Tuttavia il golpe non ci fu. «Non ci fu soltanto perché in quei due anni, 1969 e 1970 la risposta e la tenuta del campo democratico, compresa la massa popolare del partito cattolico fu molto forte. La de popolare non passò dalla parte del golpe». Sembra di capire che invece un'altra parte della de... «Mi scusi, io parlo da magistrato. Però le dico questo: quando gli ordinovisti volevano sceglier re un partito di copertura, non sceglievano la de ma il psdi di Tonassi, che era considerato il partito bulgaro filoamericano». Poi che.cosa successe? «Che intorno al 1974 cambiò lo scenario della guerra fredda: finì il franchismo in Spagna, il salazarismo in Portogallo e la Grecia dei colonnelli tornò alla democrazia. Gli stessi americani strinsero al centro e la struttura golpista che aveva la sua sede operativa a Verona venne sciolta. E così finì l'operazione in Italia». Paolo (Suzzanti «Quel giorno vennero utilizzate 6 cellule e 30 persone» «Ventura e Freda; adesso non sarebbero più assolti» «La struttura golpista aveva una sede a Verona e venne sciolta dopo il 1974» «Più che della tensione questo fu il primo episodio di strategia del colpo di Stato» H A sinistra un'immagine delia straga compiuta il 12 dicembre del '69. qui (Otto Delfo Zorzi e, a destra, Il giudice Guido SaMnJ Nella foto a destra Franco Freda Nella foto qui accanto Giovanni Ventura