Non c'è più posto per loro si nutrivano di silenzi

Non c'è più posto per loro si nutrivano di silenzi Non c'è più posto per loro si nutrivano di silenzi ri stato l'aumento generale / dei decibel a far decrescere, forse sparire, i fantasmi. Non c'è sghignaz- Izo raggelante, non c'è scroscio di catene che possa tenere testa a una sirena d'ambulanza, a un ingorgo d'incrocio. Oscar Wilde, che fu tra i primi a trattare il tema dei fantasmi con ironica leggerezza, saprebbe certo utilizzare questa difficoltà, impossibilità, per i fantasmi odierni di farsi sentire, semplicemente. Il povero ghost che azzarda un sospirane cavernoso e il motorino in transito che lo sovrasta, lo cancella. Di giorno, di notte, in città, in campagna. Uno scrittore affettuoso potrebbe essere tentato dalla sfida: la storia di un fantasma frustrato, alla continua ricerca di un'occasione per manifestarsi tra un boato televisivo, un concerto rock, un tagliaerba nel prato del parco. Grama sopravvivenza tra silenzi interstiziali sempre più esigui. Nelle storie di fantasmi noncomiche il silenzio è basilare. Mai specialmente sottolineato, ma solo perché veniva dato per scontato, faceva parte della scena, della vita. Persone, oggetti, paesaggi anche urbani erano immersi nel silenzio e su un tale sfondo ogni scricchiolio faceva la sua figura. Per l'insospettito protagonista, testimone o vittima che fosse, «tendere l'orecchio» era una reazione del tutto spontanea e naturale. Oggi l'espressione stessa farebbe ridere, nessuno «tende» un orecchio senza posa assordato, semmai lo si ritrae, si cerca di proteggerlo con tappi di cera o di plastica, e addio alla musica fantasniatica. La mia grande fortuna fu di venire a contatto con le storie di fantasmi in un vero castello, quando la guerra (seconda mondiale) imponeva l'oscuramento e vietava la circolazione di autoveicoli. Il silenzio era dunque uno di quei bei silenzi di una volta, rotto davvero da certi canti alticci che si allontanavano «per li sentieri» nelle notti domenicali. Raccolti attorno a un caminetto acceso leggevamo a voce alta queste storie spaventevoli. I diversi legni dell'antica dimora scricchiolavano al momento giusto, spifferi misteriosi, tonfi inquietanti ci facevano tendere ansiosamente l'orecchio. Cadeva un tizzone e si rabbrividiva, una falena in volo suscitava sussulti. La guerra pareva lontanissima, una vicenda del tutto irreale, una favola inconsistente. La prima volta che mi misi alla macchina da scrivere, una Remington nera, fu per tradurre una ghost-story del grande M. R. James, la stanza n. 13. Conosce- una; Jam< guna gJameI una; 1 Jam< vo male l'inglese e peggio l'italiano, ma ancora possiedo quei pochi fogli ingialliti e zeppi di errori ridicoli. Quando, con Lucenti ni, combinammo l'antologia di cui così benevolmente dice Barbero qui a fianco, dovetti ritradurre il racconto da zero. Ma quelle letture di tanti anni prima mi fornirono se non altro il materiale di base, o piuttosto una sorta di guida ai requisiti di una bella storia di fantasmi, un criterio epidermico ma decisivo di scelta: le pagine che non avessero retto a quella che io chiamavo (da prova-castello» andavano scartate. C'era al primo piano la grande biblioteca, con annate su annate di riviste in buona parte dell'Ottocento francese, legate con un nastro marrone. Una sera ne tirammo giù un numero e leggemmo più o meno quanto segue: in una casa parigina borghese alquanto decaduta, in uno degli appartamenti d'affitto, trovano inesplicabile morte tre o quattro inquilini, uno dopo l'altro. D'accordo con la polizia il proprietario fa girare la voce che l'appartamento è gratuitamente a disposizione di chiunque accetti di installarvisi senza più uscirne finché il mistero non sarà chiarito. Si presenta uno studente che comincia subito, come gli è stato raccomandato, a mettere per iscritto ogni minimo evento del suo soggiorno. Il diario registra ben presto l'apparizione al balconcino di fronte di una bella ragazza, dapprima sdegnosa e poi via via sempre più sorridente, civettuola, invitante. I due non si possono parlare se non a gesti e lo studente ripete amorosamente tutto ciò che vede fare dalla dirimpettaia, cernii di saluto, invio di bacini con la mano, ecc. Fino al giorno in cui quella strappa il cordone della tenda (e così fa lui), se lo lega al collo (e lui la imita) e mima l'impiccagione (lo sventurato esegue). Viene così trovato morto con un morso mi pare di ragno sul collo. Non ho mai più ritrovato questo racconto, non ne ricordo il titolo né l'autore, certo non inglese, forse un tardo-romantico mitteleuropeo. Allora, davanti al camino, mi sembrò un capolavoro del brivido, ma bisognerebbe rileggerlo, andarlo a cercare tra quelle riviste polverose: Revue des Deux Mondes, Mercure de France, Revue de Paris, chissà. Né d'altra parte mi dispiace di avere nella memoria non un racconto di fantasmi, ma un racconto-fantasma, sepolto tra le mura di un castello come vuole la tradizione.

Persone citate: Barbero, Fino, M. R. James, Oscar Wilde, Remington