A Istanbul, aspettando l'Islam

A Istanbul, aspettando l'Islam A Istanbul, aspettando l'Islam Integralisti al potere, decide una donna LA FRONTIERA ESPLOSIVA D'EUROPA MISTANBUL A dov'è che finisce l'Europa, ora che la geografia non è più quella che conoscevamo. Quali sono le sue nuove frontiere a Oriente, gli slavi della Russia, oppure i tatari, o gli iraniani; qual è la mappa delle terre che sto» ia e politica le hanno ora assegnato, dentro e fuori dei confini che i continenti ritenevano immodificabili, dalle anse del Danubio alle montagne del Caucaso. La Turchia che ha innalzato la Sublime Porta sulle rive del Mediterraneo ha in Tracia - da questa parte, dunque, dell'Europa geografica, con la Bulgaria e l'ultima Grecia - appena il 2 per cento della propria terra; tutto il restante 98 per cento si allunga dentro il pianoro fertile dell'Anatolia, che e già Asia. Eppure, anche con queste sue radici piantate nelle steppe lontane e anche con le mille orgogliose moschee di Istanbul (e pure le tremila danzatrici del ventre che, poi, popolano le sue notti), questo è pur sempre un pezzo d'Europa, non meno di quanto lo fosse Sarajevo con la sua civiltà della tolleranza. E' Europa certamente per la volontà politica dei suoi governanti di oggi, pero anche per la continuità di una cultura che integrò nell'itinerario complesso della storia mediterranea Roma, Bisanzio e l'Impero Ottomano. Ma dev'essere perché l'Asia sta appena dall'altra parte di questa citta, oltre il Mar di Mannara, che la democrazia quaggiù è subito una frontiera ambigua, un orizzonte (psicologico, più che geografico) perduto dentro le foschie del Bosforo insieme alle antiche certezze del diritto. E dev'essere per questo che ogni tanto si torna a parlare di sciabole in agitazione tra Ankara e Istanbul, ogni volta che una crisi di governo si avvita troppo nelle tortuosità di uno scontro dove la politica, però, continua a mostrarsi soprattutto come un regolamento di affari poco chiari, di odi personali, di faide di famiglia. Anche di paura dell'Islam. «Stiamo per finire dentro un tunnel similitaliano», dice sorridendo il primo ministro, Mesut Yilmaz. Però è un sorriso di cortesia, non scherza affatto; intende soltanto dire che tra poco anche qui nessuno ci capirà più niente, su come uscire dalla crisi di governo. Yil- maz resta in carica per l'amministrazione corrente, ma è dimissionario; l'ha costretto alle dimissioni proprio la sua alleata di governo, l'ex premier Tansu Ciller, che gli ha ritirato l'appoggio per una storia di 6 milioni di dollari che non si sa bene dove siano finiti (e che oggi decide se costituire un nuovo governo con gli islamici, i quali in Parlamento hanno votato contro l'apertura di un'inchiesa per corruzione contro la Ciller). Il denaro pubblico che sparisce non è un'esclusiva italiana; se Yilmaz parla di Roma, allora lo dice per un'altra ragione: che la frammentazione dei partiti fa del Parlamento turco un barcone senza guida, dove non si riesce a formare una maggioranza stabile. A meno di non ingaggiare al governo il partito islamico, il Refah, che con il suo 21% è il più forte tra tutti. Ma quando si parla d'Islam, i militari turchi si fanno subito nervosi. E riappare allora l'Asia. Per spiegare le nostre ripetute crisi politiche Alberto Ronchey ave¬ va tiratu fuori la discriminante del Fattore Kappa, che dava ai comunisti il gene dell'esclusione a vita dal governo. Quello era un fattore che stava radicato nella geopolitica; caduto il Muro, e finiti i blocchi ideologici della guerra fredda, anche il Kappa sparì. 11 Fattore I (dove la «I» sta naturalmente per Islam) è un problema assai più delicato, che riguarda l'identità stessa della Turchia, non soltanto gli attori del suo sistema politico. Nata nel '23 sugli ultimi resti dell'Impero Ottomano, la nuova nazione turca ebbe imposte dal generale Kemal il dovere di rompere ogni rapporto con il passato e con le umiliazioni della sconfitta: la Turchia nasceva segnata dai caratteri genetici della laicità, nel rifiuto di quella commistione tra potere politico e guida religiosa che aveva indebolito la capacità di resistenza del Sultanato stambulita. E questa laicità non era soltanto un principio astratto, di codificazione accademica; diventava subito una regola di vita quotidiana: cam¬ biava la scuola, cambiava la lingua, cambiavano i caratteri della scrittura (nella vasta hall del vecchio Pera Palace c'è ancora una deliziosa stampa a colori dell'inizio del secolo, con il Sultano e i soldati che marciano per Gallipoli, e la scritta è in caratteri arabi), cambiavano i vestiti che ora erano quelli europei, cambiava la legge della sharia con il nuovo codice di diritto romano. Il costume collettivo si trasformava, la nuova nazione realizzava un processo d'identità nella separazione pubblica dall'Islam. E di questa separazione, diventava garante e custode l'esercito. Ma qui si torna, subito, a quell'ambiguità della frontiera della democrazia che soltanto le foschie che salgono su leggere dalle acque del Bosforo possono, forse, spiegare. Per tre volte - nel '60, nel '71, nell'80 - i generali di Ankara hanno ritenuto che il processo politico non corrispondesse a quanto voluto da Kemal Atatùrk (Padre-dei-Turchi), e sono intervenuti a sospendere la Costituzione; e a decidere, essi, per i partiti. E' vero che, dopo, hanno sempre restituito il potere al Parlamento; però la procedura seguita non sembra poi corrispondere ai principi che nella vecchia Europa geografica la democrazia usa verso i rapporti tra politica e forze armate. E questi di oggi, in Turchia, sono di nuovo tempi che qualche amarezza ai generali la stanno dando: la crisi di governo si va infatti risolvendo con un incarico al leader del partito islamico, Necmattin Erbakan. Cioè al nemico del kemalismo. Erbakan ha già conquistato il controllo amministrativo di Istanbul, Ankara e di altre 40 grandi città. E se si andasse a elezioni anticipate, probabilmente prenderebbe la maggioranza assoluta del Parlamento. Il vecchio mausoleo di Kemal Pascià, su una collina di Ankara, in questi giorni dev'essere attraversato da venti furiosi, la cui eco giunge certamente in tutti i palazzi del potere, civile e anche militare. Ma è davvero possibile un altro col¬ po di Stato (sia pure un golpe bianco), se questo Paese è comunque un pezzo d'Europa? La risposta più convincente dice che no, quali che siano le foschie che quaggiù confondono le idee e la saggezza dei politici. A marzo, quando già per la prima volta si era parlato di un possibile incarico a Erbakan, i militari avevano convinto i due alleati-nemici, cioè Yilmaz e la signora Ciller, a trovare comunque un accordo. Così era stato fatto, anche in breve tempo, ma è durato ben poco. Ora che si torna a un nuovo progetto di incarico per Erbakan, i militari questa volta si muovono assai più cautamente: le alternative si vanno consumando, ma da Washington sono stati fatti arrivare segnali di preavviso tanto cauti quanto chiari, e loro stessi comunque, i generali, sanno bene che oggi l'Europa sta lì a marcarli strettamente; che sono finiti i tempi del potere preso in aspettativa. Certo, Erbakan non fa poi molto per rendersi accettabile. Parla an- che di moderazione, e di rispetto della Costituzione, però intanto fa sapere che è tempo di finirla con la storia della Turchia in Europa, e che il futuro di Ankara sta invece all'interno di una geografia capace di fondere il Medio Oriente con le Repubbliche islamiche dell'Asia Centrale, facendo nascere un Mercato Comune musulmano (dove la Turchia sarebbe la Germania di turno), con una moneta unica. E negli ultimi cinque anni, la Turchia laica di Kemal ha costruito 3 mila nuove moschee, accanto alle 61 mila che già aveva. Per ora i giorni stanno passando nella calma. Il presidente Demirel dice che non bisogna mescolare politica e religione, e il capo di Stato maggiore è andato a fargli, subito dopo, una lunga visita a quattrocchi. Nell'attesa intanto che Erbakan faccia sapere se riesce a costruirsi una maggioranza, questi sembrano giochi di società per chi conosce bene quanto rigidi - prussiani - siano i generali di qui. La foto di Kemal, in Turchia, la si trova a ogni passo, in ogni ufficio, in ogni anticamera, in ogni aula scolastica. Le foschie del Bosforo renderanno pure incerti da queste parti i confini del diritto, ma certo i generali alla fine dovranno accettare che modernizzazione e democrazia non possono essere coniugati separatamente, nell'Europa lo scenario algerino, comunque, appartiene a un'altra geografia. Mimmo Candito Il piano del partito Voltare le spalle all'Ue e creare il Mercato comune musulmano Oggi l'ex premier Tansu Ciller scioglie la riserva sulla alleanza con il Refah Ma sul tradizionale «atlantismo» turco vegliano l'esercito e il presidente Demirel Una manifestazione di islamici a Ankara in difesa degli alawiti la setta musulmana i cui aderenti sono stati vittime di violenze a Istanbul nei mesi scorsi Nella foto piccola, l'ex premier Tansu Ciller, che oggi decide se allearsi con il partito islamico Truppe turche sfilano sullo sfondo del ritratto del generale Kemal