Montale poeta in gabbia di Giorgio Calcagno

Raccolti gli scritti giornalistici dal 1920 al 1979 Raccolti gli scritti giornalistici dal 1920 al 1979 Montale, poeta in gabbia Fra «scoop» e necrologi, il secondo mestiere L secondo mestiere, per Eugenio Montale, era il giornalismo. Secondo perché non lo considerava il suo, non perché ne avesse un altro. Montale si sentiva soprattutto poeta e sapeva che la poesia non è un mestiere. Cercò di campare, come potè, con altri lavori, ma non trovò molto, dopo aver rifiutato il solo posto che la vita gli offriva, quello di ragioniere nello «scagno» paterno di Genova. Fin dagli anni genovesi, l'unica attività retribuita - poco fu la collaborazione ai giornali che ospitavano i suoi scritti: Il Cittadino, organo della Curia, dove esordì; Il lavoro, socialista; le riviste gobettiane; più tardi La fiera letteraria di Fracchia, Pan di Ojetti, Solatia. Aveva 51 anni, il futuro Premio Nobel, e tanta povertà arretrata, quando passò la difficile porta del Corriere, in via Solferino. Era, per la prima volta in vita sua, un posto sicuro. Eppure tentennava ancora, cercava vie traverse, per inventarsi qualsiasi altra occupazione che lo salvasse dal giornalismo. Sono di quei giorni tre drammatiche lettere a un ecclesiastico amico dei letterati, monsignor Fallani, per ottenere un posto altrove - all'estero, in Vaticano, all'Unesco - attraverso raccomandazioni politiche. «Mi aiuti Lei, se può, a non sprofondare in una redazione di giornale», supplica, quando è già da due mesi in servizio a Milano: senza risultato. E nel giornale il poeta sprofonda, per il resto della vita. Addetto, nei primi anni, a lavori subalterni, senza nessuna voce in capitolo, costretto a scrivere necrologi, a intervistare personaggi che non sempre lo interessano. E' redattore della terza pagina, ma i pezzi dei collaboratori importanti non passano per le sue mani, perché provvede il direttore Mario Missiroli a mandarli di persona in tipografia. Questo Montale abbassato e, per certi aspetti, umiliato viene fuori dal bel ritratto che ne dà Giorgio Zampa, fedele amico del poeta, nel presentare le sue prose giornalistiche, dal 1920 al 1979. Sono quasi 3500 pagine, raccolte in due tomi dei Meridiani Mondadori, appena usciti in libreria, frutto di una ricerca durata anni su scritti dispersi, spesso non firmati. Il titolo, Il secondo mestiere, è ricavato da un articolo di Montale stesso, del 1959. Se l'arte, per non essere ridotta a merce, dovrà salvarsi con il ricorso ad altro mestiere, «ben vengano i secondi e terzi mestieri». In realtà, per molte pagine del libro, il secondo mestiere sfiora spesso, nella secchezza del linguaggio e soprattutto nel lampo del pensiero, quell'impossibile mestiere primo che il poeta non volle mai nominare. Il Montale che pubblica su giornali, e soprattutto su riviste, è lo scrittore dotato di un senso critico acutissimo, in grado di captare segnali sfuggiti a tutti i critici laureati. Fuori dal gioco delle cattedre, Montale dà scacco all'accademia, con le sue scoperte. Ha appena 29 anni, frequenta ancora marginalmente il mondo letterario, ma è lui il primo ad accorgersi che, nella nostra letteratura, esiste uno scrittore chiamato Italo Svevo. E scrive il primo saggio sull'autore triestino, che ha da poco pubblicato, fra la distrazione generale. La coscienza di Zeno. Pochi mesi dopo (marzo 1926) si imbatterà in un libro uscito dalla Stamperia Antonio Vianello, Treviso, Il porto dell'amore, e indi¬ cherà nell'autore sconosciuto uno scrittore di avvenire sicuro: Giovanni Comisso. Nel settembre 1929 scommette su un altro giovane, di cui ha letto il libro d'esordio, Salmace: Mario Soldati. Ci sono scoperte con riserve, sempre affilate: Delfini è «inadatto al gran pubblico»; Pratolini «imparerà con l'esperienza»; At¬ tilio Bertolucci, giunto secondo ai Littoriali del 1934, «fa molto sperare e molto temere». Nel 1931 Montale recensisce, su Solario., Acque e terre dell'esordiente Quasimodo, autore di una poesia «chiusa all'intelligenza e all'amore dei più». E gli pone una domanda che in realtà sembra rivolta a se stesso: «Saprà egli pa- game il prezzo di persona?». Il volume raccoglie anche molte corrispondenze di cronaca, a cui Montale chiaramente dovette adattarsi per il quotidiano milanese: come i 18 articoli da Strasburgo per dare conto dei tediosi lavori al Consiglio d'Europa. L'incontro con Cronin, assediato dai cronisti al suo sbarco a Genova nel 1948, è quasi imbarazzante per il cinquantaduenne poeta, che cerca di defilarsi con eleganza: «Qualche frammento delle sue risposte è giunto fino a me». La recensione ai Discorsi d'America di Gronchi nel 1956 è un basso servizio che un giornale non avrebbe dovuto chiedergli. Ma altri pezzi di occasione hanno un respiro alto, dove si avverte tutta la tensione morale del poeta: come il necrologio per Clemente Rebora, autore a lui cosi vicino, dalle lontane origini liguri all'approdo verso le domande ultime; o come il pezzo in morte di Paolo VI, che lo porta a interrogarsi sul senso del cristianesimo nella società secolarizzata: «Da colui che sostituirà il Papa defunto vorrei eroismo e umiltà, a vantaggio della rivoluzione cristiana incompiuta», scrisse in uno Ira i suoi ultimi articoli. A diciotto anni di distanza, quelle parole pesano ancora; forse di più. Giorgio Calcagno Un lavoro svolto sempre controvoglia, ma fu lui a scoprire Svevo, Comisso, Quasimodo Società e Cultura istici dal 1920 al 1979 ta in gabbia il secondo mestiere pre ui Ma

Luoghi citati: America, Europa, Genova, Milano, Strasburgo, Treviso