Tra le macerie dei democratici

Soltanto tre punti di vantaggio per Boris Zhirinovskij furioso per la disfatta LA MALEDIZIONE COLPISCE ANCORA Tra le macerie dei democratici Jakovlev: la Russia non ha più bisogno di noi AMOSCA LLA fine di aprile non avevano smesso di sognare. «Abbiamo ancora una chance» era scritto in fondo al loro manifesto con una rassicurante constatazione-promessa. Adesso ci sono soltanto rovine; i democratici contano le macerie, esigue, di quell'8 per cento raccolto da «Gricha» Javlinskij, Kennedy mancato delle Russie. Gli anni e le elezioni passano, loro sono già precocemente «vecchi», rassegnati, inesistenti. Il guaio è che la Storia ha rifiutato di cooperare: sognavano un capitalismo pulito e si ritrovano con un'imitazione caricaturale dell'economia di mercato; propagandavano i diritti umani e soffia la nostalgia di un passato immaginario e idealizzato. Avanzano solo i Rambo-Lebed, vanno indietro quelli che dicono verità complicate, mentre i capi eccitano le masse con parole forti e ragioni mediocri. La maledizione che perseguita i democratici russi è antica. Sanno di avere ragione, ma non riescono a convincere la gente, soggiogata in una perniciosa dialettica autoritaria. Il viaggio alla ricerca del fantasma della «terza via russa» riserva così solo volti delusi, rassegnazione, rancorose rivalse. Nel suo ufficio di rettore dell'Università di Scienze umanistiche, Juri Afanasiev non si arrabbia nemmeno se gli ricordi una battuta: per trovare i democratici russi bisognerà, prima o poi, mettere annunci sul giornale. «In questi concetti, quando si riferiscono a questo Paese, c'è sempre qualcosa di effimero. Facciamo un po' i conti. C'è l'8% di Javlinskij, a cui possiamo aggiungere al massimo una piccola quota di quelli che hanno scelto Eltsin, ma hanno idee sinceramente democratiche. Ammettiamolo: i democratici non esistono. Non c'è la base, il fondamento per la democrazia. Non c'è imprenditoria media e piccola, la borghesia intellettuale, quella che pensa e si sente indipendente. E' l'assenza dei ceti medi che rende la democrazia russa cosi effimera». Egor Jakovlev, uno che ha saputo dire no a Eltsin, dimettendosi dalla direzione della tv e che oggi guida il settimanale «Obtchaja Gazeta», che ha tentato invano di dare un volto al cameade Javlinskij, non usa termini meno accorati: «Nella vita tutto nasce quando diventa necessario. Se sei senza pantaloni, corri al mercato a comprarli. Se hai bisogno di una terza forza, di un partito diverso da quelli che si dilaniano per il potere, vai a cercarlo. Altrimenti lasci perdere. Alcuni giorni fa parlavo con Gorbaciov. L'ex Presidente si lamentava perché i democratici non si sono uniti con lui per formare un blocco. Ho molto rispetto per Gorbaciov, ma gli ho risposto: "Mikhail Sergheevic, la verità è che non hanno bisogno di lei". E' vero, i democratici non ci sono. C'è stanchezza, rassegnazione. Lebed ha successo perché richiama la gente che non vuole avere a che fare con rossi o bianchi. Dopo la rivoluzione fallita del 1905, quando le speranze sembravano morte, Lenin inventò un termine: periodo della sazietà politica. Noi siamo arrivati ad un'altra fase come quella. Abbiamo mangiato troppo, troppi programmi, troppi partiti, troppe ideologie, abbiamo la pancia che scoppia». C'è la tentazione di scaricare tutto sul destino cinico e baro, sull'eterna maledizione del «vozdim», l'affidarsi del suddito russo al capo e anche al potere arbitrario. Quella che Jakovlev chiama «la tentazione dello zar». Ma Elena Bonner, la vedova di Sacharov, lancia accuse precise, fa nomi, chiede severe autocritiche: «La verità è che la so- stanza della democrazia e le etichette che applichiamo a certe persone non coincidono. La maggior parte dei nostri democratici non sono tali, sono finti. Sono quelli come l'ex premier Egor Gaidar che hanno commesso, un errore strategico enorme. Hanno, cioè, appoggiato Eltsin senza pensare in alcun modo di condizionarlo in cambio del loro sostegno. Aveva ragione il Presidente quando, all'inizio della campagna elettorale, aveva dichiarato: "I democratici? Quelli mi appoggeranno senz'altro, non possono andare da nessun'altra parte". Aveva capito la psicologia di questa gente. I risultati si vedono: elargizioni di arretrati a pioggia, decreti che navigano nel vuoto, e poi il grande inganno, la truffa della pace in Cecenia». Se la mancanza di un leader vero, in fondo di un secondo Sacharov, che presentasse una miscela cartesiana di audacia politica, misura e realismo ha insabbiato i democratici, il nodo è anche nell'irrisolto rapporto con Eltsin, eterno ex amico, seduttore difficile da rifiutare. Lo riconosce Afanasiev: «L'Occidente lo appoggia non solo perché Qui a fianco Elena Bonner e Egor Jakovlev. In alto da sinistra a destra Boris Eltsin, il leader comunista Ghennadi Ziuganov il generale Aleksandr Lebed e un maxischermo a Mosca con i risultati del voto

Luoghi citati: Cecenia, Mosca, Russia