Ernst, corpo di scultore

Le sorprese della retrospettiva al Castello di Rivoli Le sorprese della retrospettiva al Castello di Rivoli corpo di Modello dada di celebri fotografi m I LLm TORINO 0N paia un'eresia e nemmeno una provocazione, se si dirà timidamente che le più belle sculture di Max Ernst esposte alla retrospettiva organizzata da Ida Giannelli al Castello di Rivoli, sino al 15 settembre, ci paiono quelle realizzate dal suo «corpo» di elegante dandy, messo in scena da grandissimi fotografi, come Berenice Abbott, Lee Miller, Karsch. Quella diaccia e solarizzata di Man Ray, in cui un metallico Ernst-intweed, sagoma di diaspro e bronzinesca, s'immobilizza come un emblema di sale; oppure quello scatto orsonwellesiano della Abbott, che lo placca poliziescamente come un assassino dell'intelligenza, microbo elegantissimo affondato su trono d'una gigantesca poltrona fiabesca, da Piccolo Principe. Quella celebre di Mulas, dove il vecchio leone su un vaporino che va alla Biennale sventola come un vessillo, tra militari e veneziani ignari del suo genio biancovestito. Oppure la posa fashion impostagli da Perni, le gambe smisurate della Tanning che sembrano non finire mai ed un tappeto che viluppa il loro difficile amore, o quel totem di corpi innamorati tra l'Aurenche, Ray e Lee Miller che s'avviluppano in verticale, quasi strozzandosi amorosamente a vicenda. Ma è incomparabile soprattutto il sognante fotomontaggio di Fredrick Sommer (non a caso esposto alla recente rassegna sulla Fotografia americana al Pompidou) in cui il vecchio bianco a torso nudo sembra composto di una friabile sabbia, che il vento va spettinando per sempre. Questo per dire non soltanto che il fotogenico «falco» Max Ernst era prediletta «carne» e corpo predestinato da fotografia, ma che la sua stessa scultura, così impacciata di forma e pesantemente in progress, pare non sappia fare a meno del corpo del suo artefice, se è vero che con tanta voluttà CartierBresson e Lord Snowdon lo riprendono mentre fa letteralmente l'amore con le proprie sculture mai-finite, e Yousuf Karsh si diverte a sottolineare, contrapponendole, le fisionomie del vero Ernst-di-carne con quella bronzea del suo gufo Allegro: quasi un autoritratto. Sinché duchampianamente, nel 1948, Ernst si lascia fotografare da Bob Towers mentre tiene sollevata accanto a sé una pesante cornice di ferro: diventato corpo da museo, «quadro». Non vuol essere, sia chiaro, un «giudizio» limitativo sulla sua scultura, anche se Ernst ha già assolto, paradossalmente, i critici, con la sua derisione: «Scusate, signori, l'arte non ha nulla a che fare con il gusto, l'arte non c'è perché uno la gusti». Non vuol essere un giudizio, ma un tentativo di capire: la scultura di Ernst sembra perennemente alla ricerca di una propria forma, come un gelato rimesso nel freezer dopo un viaggio nel mondo, ma in modo molto diverso dall'ossessione del vuoto di Giacometti o quella del puro, dell'essenziale di Brancusi. Ernst vuole imporre la logica di un «savoir-faire» assai poco borghese: «Un savoir-faire che presuppone l'esser capaci di render sensibile la vita interiore della linea e del colore. Il critico deve poter riconoscere l'avvenimento nella forma espressa dall'artista, deve poterla rivivere». Pronti. Ernst non ha mai nascosto che per lui (che «già a dodici anni lascia padre e madre per inseguire i trenini adolescenziali e le più importanti sogliole») fare della scultura sia come un'allegra, golosa scampagnata via dalla più impegnativa pittura. E' come un gioco-bambino, a piene mani, in cui trascina «gli spiriti genitali, l'embriologia sacra e tutta la merda dei dottori della Chiesa»: «Nel caso della scultura, infatti, come nell'amore, entrambe le mani svolgono un ruolo importante. E' come una vacanza, prima di ritornare alla pittura». In sintonia con la vecchia poetica dada, e quasi facendo scultura delle ideés regues di Bouvard e Pécuchet («trovo il martelletto del pianoforte la scultura più riuscita»), inglobando qualsiasi objets trouvés nella pancia d'una materia duro-molliccia assai golosa («I suoi occhi bevevano avidamente tutto ciò che appare alla vista», annota nei suoi abbozzi autobiografici) Ernst insiste su questa componente effimeroludica: «Pratico una specie di gioco, simile a quello dei bambini sulla spiaggia: immetto delle forme in un modello e così inizia il vero e proprio gioco della antropomorfizzazione». Ed è innegabile: tutta la sua scultura, che si tratti di forconi in forma di aratri etruscheggianti con lingua blasfema o di Oiseaux-tètes in forma di quadrato (strani animali d'un bestiario piatto che riscrive le me- tamorfosi di Ovidio), che si tratti degli Asparagi stregati dalla luna, o di Table-mise o ancora di Giovane uomo col batticuore, si ha sempre a che fare con forme riconoscibili, sia pure oltraggiate, massaggiate, masturbate allegramente. Quel titolo ultimo è emblematico: a differenza di Giacometti, che voleva evocare la fuggitività delle cose e accanto a cui lavora a lungo sul Maloja (e scopre che la natura, con i suoi corrosivi effetti atmosferici è artista molto migliore dell'uomo) Ernst vuole bronzificare ogni tipo di movimento, anche quello sotterraneo, intimo, psicologico di un batticuore. Vuole raccontare la mostrificazione del mondo, cantare quegli imprevedibili vermicelli che vengono dalla foresta dell'inconscio, dalle parti di Tanguy e di Dall', ma con meno ironie.: peccato che nel frattempo il cinema abbia creato delle bestioline molto più suggestive. Più che la voglia di épater, batte in lui la volontà istintiva di manipolare la materia, con un credo anti-accademico: «Ha preso troppo dai greci e da Michelangelo» scrive d'un collega, «vada dai negri e impari che cosa è scultura». Lui ha preso fin troppo dalle maschere antiche, anche da quei mammozzi-bocchettoni che convogliavano l'acqua sulle facciate delle cattedrali romaniche, oppure dalle culture maya e indie del Sudamerica (bellissime le sue fotografie nel deserto dell'Arizona, che sembrano sequenze d'un film di Sam Shepard). Ma la scultura cicladica e quella pre-incaica insegnano che è difficile, oltre la loro, «essere assolutamente moderni» come predica il credo avanguardistico. E la materia, che non sta più nella pelle, è comunque il grande limite di questa scolastica surrealista, troppo scoperta, volontaristica, alla fine velleitaria, che vorrebbe materializzare e raccontare gli abissi del subconscio. Alla fin fine, ed è questo forse uno scacco dell'arte, ci racconta molto di più di Max Ernst quel solo occhio da pachiderma triste, che Bill Brandt mette in scena, tragico, avvolto di rughe e solitudine, come una muta pantomima di Beckett. Marco Vallerà «Andate dai negri a imparare che cos'è l'arte» Max Ernst accanto a una sua opera fotografato da Yousuf Karsh e (in alto) con Dorothea Tanning

Luoghi citati: Arizona, Rivoli, Sudamerica, Torino