Un semaforo come catena per i nuovi schiavi-bambini
Un semaforo come catena per i nuovi schiavi-bambini Milano: agli incroci sono scomparsi i lavavetri, rimpiazzati da centinaia di ragazzini albanesi Un semaforo come catena per i nuovi schiavi-bambini I PICCOLI DISPERATI PELLE METROPOLI Lm MILANO m UNICA cosa pulita di Brancko - 13 anni, capelli arruffati e biondi, faccia coperta di croste marroni, mani grigie di polvere, unghie nere, piedi scalzi, vestiti strappati sono gli occhi celesti. Li tiene serrati, per via del sole che cuoce l'asfalto. Rosso. Le automobili arrivano in frenata, con i loro cofani bollenti che fanno vibrare l'aria azzurra di smog. Lui salta giù dal marciapiede e punta i cristàlli dietro ai quali solo sguardi impassibili. Ogni carrozzeria luccicante, qui, al semaforo rosso della sua infanzia, vale più della sua vita. Sempre che si chiami vita, questa cosa che tiene insieme i giorni di Brancko, lo schiavobambino venuto dall'Albania. Non lava vetri. Non vende fazzoletti. Non bussa ai finestrini. Non parla. Non sorride. Guarda punti imprecisati dentro gli abitacoli, il velluto dei sedili o il volante, coglie alla sua destra un movimento, si volta, una donna sta facendo scivolare il finestrino. Si avvicina, stende la mano, la donna versa qualche moneta. Lui richiude la mano. La donna richiude il finestrino. Verde. L'orologio del mondo apre nuovi sentieri del tempo. Ma il tempo va a singhiozzo, e un bel po' di sentieri non portano da nessuna parte. L'Unicef dice che sul pianeta ci sono almeno 75 milioni di schiavi-bambini, piccole anime incatenate nelle miniere di rame o piegate sulle discariche infestate dai topi e dai gabbiani, oppure sui telai della seta e del cotone, o lungo tutti i bordi affamati delle guerre. Brancko regola la sua sopravvivenza sui flussi del traffico, tra il rondò e il cavalcavia che scivola verso il largo asfalto delle autostrade, direzione Liguria. E come lui - a Milano, a Torino, a Roma - altre centinaia di ragazzini, deportati dai cieli vuoti dell'Albania nel sopportabile inferno di un incrocio, presidiano i semafori sgomberati dai coltelli e dai pugni del racket. Sono loro, i biondi e magri albanesi, ragazzini tra gli 11 e i 16 anni - tutti con gli identici stracci lacerati, maglioni senza maniche, pantaloni di due taglie più grandi - i detriti che la nuova risacca dello sfruttamento ha lasciato sui marciapiedi delle nostre città. Perché in queste faccende di disperati e miseria, il peggio è solo provvisorio. Dai semafori sono spariti i marocchini. Sono spariti i tunisini e gli egiziani che ai tempi loro avevano sostituito le prime avanguardie di polacchi, rudi e letterari, arrivati dalle campagne intorno a Varsavia, con uno straccio bagnato e una spugna. I maghrebini hanno resistito parecchio. Affinando, per quel che vale, i tempi della prestazione: un colpo di acqua e saponacea, un sorriso, la spatola, il secondo sorriso. Mille lire. «Spariti proprio da un giorno all'altro», come confermano da due punti opposti della citta, il commissariato del Ticinese e quello di San Siro. Dice uno dei funzionari: «L'idea che ci siamo fatti è che agiscano parecchi clan di albanesi adulti. Lavorano molto in fretta: individuano i semafori migliori, terrorizzano gli arabi, piazzano i bambini». L'anno scorso, di questi tempi, era successa più o meno la stessa cosa ed era andata a finire con 2 albanesi arrestati, un altro paio sfuggiti alle manette. Controllavano 49 semafori tra piazzale Loretto e le circonvallazioni. Manodopera: 80 bambini identificati e rimpatriati nonostate la loro riluttanza: «Noi fra dieci giorni siamo di nuovo qua». Investigatori e assistenti sociali, dopo ore e ore di pazienti interrogatori, avevano messo un po' di cifre e un po' di risposte dentro alle caselle dei rapporti. Avevano scoperto il terrore. Le botte. I polsi e le dita spezzate per punizione. E avevano scoperto che i bambini non spariscono affatto all'insaputa dei genitori. Spesso vengono «affidati» dai parenti ai clan che si incaricano di portarli sulla costa, a Valona. Lì, contraggono il debito di un milione per il viaggio che poi è una fradicia corsa notturna sugli skafi che viaggiano a 65 nodi all'ora, saltando sulle onde lunghe dell'Adriatico, fino agli approdi non pattugliati della costa salentina. Pagano e diventano schiavi. «Hanno tutti la identica storia» spiega Alberino Mazzon del Centro La Madonnina, una casa accoglienza del Gallaratese che oggi ospita una trentina di ragazzi albanesi. «Viaggiano e lavorano in Puglia, Abruzzo, Lazio, Toscana. In un mese sono qui a Milano, dieci ore al giorno di semaforo e botte se provano a scappare». Moneta dopo moneta, mettono insieme fino a 120-150 mila lire al giorno. Il 70 per cento è per i padroni, il resto viene spedito in Albania. O almeno così dovrebbe essere. Un ragazzino, Krenal, rientrato in Italia dopo una primo rimpatrio, disse ai poliziotti che la sua famiglia riceveva solo 250 mila lire al mese, quando lui credeva di avergliene spedito il triplo. Ma gli schiavi-bambini non sanno. Vivono in piccoli gruppi, stabiliti dagli adulti. Dormono in case abbandonate, controllate dagli adulti. Mangiano quello che gli passano gli adulti. Consegnano tutti i soldi agli adulti. Non hanno gesto o respiro che dipenda dalla propria volontà. E essendo solo dei corpi a disposizione, anche l'aspetto è deciso dagli adulti. Raccontano gli assistenti so¬ ciali: «Gli impediscono di lavarsi per renderli ancora più miserevoli. Li obbligano a indossare vestiti strappati e riempiti di fango. A togliersi le scarpe quando stanno ai semafori o a indossarne di sfondate. Quando arrivano da noi, oltre ai pidocchi, spesso hanno infezioni, ferite non curate, carenze alimentari». Corpi senza più identità. Bambini senza passato, senza nome, senza età, senza parola. «Ci vogliono giorni per farli parlare - dice Mazzon -. Sono diffidenti, spaventati. Temono gli uomini dei clan, ma spesso temono anche il rimpatrio. Aleko, un ragazzino di 12 anni, mi ha detto: "Non voglio tornare da mio padre perché è stato lui a vendermi e adesso non è più mio padre"». Racconta Ardian, 14 anni: «Vivevo in un paese del Korab. Il mio destino erano le greggi. Mio cugino mi ha raccontato dell'Italia e dei soldi. Così sono partito. Ho lavorato in così tante città che neanche ricordo i nomi. Sempre ai semafori, anche con la pioggia, la neve... Quando la polizia mi ha preso avevo la broncopolmonite. Così la polizia mi ha consegnato ai medici. E i medici alla signorina... La broncopolmonite mi ha salvato». Racconta Agron, 12 anni: «Ho sempre avuto paura. Mi dicevano che se non stavo al mio posto mi avrebbero spezzato i polsi. L'ho visto fare... Sono scappato, anche se guadagnavo tantissimi soldi. Non era bello. Anzi faceva tutto schifo. Le sole cose belle io potevo solo guardarle, macchine, vetrine, prosciutti...». A differenza di tutti gli altri clandestini, arrivano dal nulla di un Paese dove i decenni di isolamento e dittatura hanno spazzato via saperi e tradizioni. Nie'-*e cultura religiosa come i filippini o gli arabi. Niente cultura contadina. Nessun senso di appartenenza al di fuori del clan. Nessun valore, se non la durezza virile. «In compenso - dicono alla comunità - li tiene vivi un grottesco miraggio sulle ricchezze dell'Italia». E forse anche il fantasma di un gioco, un paesaggio sconosciuto, l'avventura di una vita che si sovrappone alla miseria già patita con tanta forza da cancellare questa. Anche gli occhi celesti di Brancko, il bambino-semaforo, hanno la lucentezza di chi guarda un miraggio, senza accorgersi dell'inferno reale che lo circonda. Mette via i soldi. Al verde la vita scatta in avanti, mentre lui resta lì. Pino Corrias Con l'elemosina guadagnano fino a 150 mila lire al giorno ma a loro resta pochissimo Li tiene vivi solo un grottesco miraggio sulle ricchezze dell'Italia I padroni gli vietano di lavarsi e li obbligano a stare a piedi nudi per apparire ancora più miserevoli I bambini albanesi stanno sempre più sostituendo agli incroci i clandestini che lavano i vetri delle auto
Persone citate: Agron, Alberino Mazzon, Mazzon, Pino Corrias
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