SANGUINETI L'ARTE VIVE D'ANARCHIA

LA RARITÀ' LA RARITÀ' di Sandro Doma SUCCESSO Mondiale: Depero Futurista non ha nulla a che fare con i soliti libri. Esso rappresenta di per se stesso un oggetto artistico». Così nella prima pagina di Depero Futurista, un'autobiografia edita da Dinamo-Azari a Milano nel 1927 in 1000 copie rilegate con la famosa imbullonatura. Ha avuto ragione Depero, la pubblicazione è stata un gran successo, perciò oggi sul mercato internazionale ha un valore altissimo, più di 10 milioni di lire. «Questo libro è: MECCANICO imbullonato come un motore; PERICOLOSO può costituire un'arma-proiettile; INCLASSIFICABILE non si può collocare in libreria». A critica cinematografica, «meteoritica attività», impegnò Pier Paolo Pasolini in una trentina di recensioni pubblicate sui giornali tra il 1959 e il 1974 (da quando a trentott'anni si preparava a diventare regista l'anno seguente, all'anno precedente Salò-Sade e la morte), raccolte adesso in Ifilm degli altri che Tullio Kezich ha curato, prefato, completato con note interessanti, preziose e divertenti. Come critico di cinema, Pasolini è naturalmente anticonvenzionale. Non ama Ejzenstejn, ritiene le sue opere tutte mancate salvo Lampi sul Messico, giudica La corazzata Potèmkin proprio un brutto film «dove il conformismo con cui sono visti i personaggi rivoluzionari è quello della più faziosa propaganda». Non gli piace Alberto Sordi: «11 riso che suscita è un riso di cui un po' ci si vergogna... la sua è una comicità che nasce dall'attrito con una variopinta e standardizzata società moderna di un uomo il cui infantilismo, anziché produrre ingenuità, candore, bontà, disponibilità, ha prodotto egoismo, vigliaccheria, opportunismo, crudeltà». Non apprezza A qualcuno piace caldo di Billy Wilder, «malgrado quel fenomeno delizioso che è Marilyn Monroe, è un film approssimativo e deprimente, che lascia in bocca l'amaro di un gioco di società riuscito cosi così». Considera Ingoiar Bergman un grande regista, però dalla cultura limitata, dai personaggi femminili monumentali e deboli «come elefanti feriti che cercano disorientati il loro cimitero», dal destino amaro: «Come creatore di moda, ha poi dovuto subire il peso della moda stessa, rifacendo cose che usano fare gli imitatori». Rispetta Visconti, ma «Rocco e i suoi fratelli sono dei meridionali di maniera». Di Antonioni, giudica La notte «priva di cultura», un exploit estetizzante da documentarista degli Anni Trenta, detesta L'eclisse per la «problematicità generica e inattendibile», mentre Deserto rosso gli sembra «un bellissimo film». Gli sono antipatici Rock Hudson e Doris Day: lui «un fasullone», lei «una piccola borghese, bruttina e Un volume curalo da Kezich raccoglie le sue recensioni cinematografiche: approva Bergman, ì isconll Bertolucci trasforma ifdm in occasioni di pedagogia e di dibattilo loro cimitero», dal destino amaro: «Come creatore di moda, ha poi dovuto subire il peso della moda stessa, rifacendo cose che usano fare gli imitatori». Rispetta Visconti, ma «Rocco e i suoi fratelli sono dei meridionali di maniera». Di Antonioni, giudica La notte «priva di cultura», un exploit estetizzante da documentarista degli Anni Trenta, detesta L'eclisse per la «problematicità generica e inattendibile», mentre Deserto rosso gli sembra «un bellissimo film». Gli sono antipatici Rock Hudson e Doris Day: lui «un fasullone», lei «una piccola borghese, bruttina e non intelligente, perbene e un po' zozzetta». Gli piacciono invece a esempio Partner di Bernardo Bertolucci («non è solo un film tecnicamente e stilisticamente nuovo, ma è addirittura un nuovo modo di fare il cinema»); La coppia diretto «in stile quasi cameriniano» da Enzo Siciliano («Ho la gioia di annunciare che è nato un nuovo regista-autore»); Ostia di Sergio Citti («film bellissimo: solo Rossellini era riuscito a far dei film così belli con altrettanta semplicità e naturalezza»); Milarepa di Liliana Cavani («un film veramente bello»). Senza remore, lo¬ da i film di cui è stato sceneggiatore o regista (Il bell'Antonio, Ixi notte brava, Porcile) e polemizza con chi non li apprezza, si piglia qualche vendetta, azzarda analogie impensate tra Fellini e Gadda, racconta belle storie personali di cinema, fa esercizio ammirevole d'intelligenza. Al di là dei giudizi, Pasolini intende anche la critica di cinema come una milizia intellettuale. Discute intomo alla critica stessa e ai suoi metodi, trasforma i film in occasioni di pedagogia o di dibattito culturale, s'impegna in analisi raffinate, riflette sul presente: un film americano di Ro- Pasolini visto da Levine Le sue recensioni cinematografiche escono da Guanda bert Wise, Strategia di una rapi na, lo porta a un esame del razzismo e del fascismo («non è che uno degli elementi ideologici del capitalismo, e fin che ci sarà il capitalismo ci sarà anche il fascismo a difenderlo, a preservarlo, ad avallarlo»). Scrive Tullio Kezich: «Pasolini che guarda i film, si entusiasma o si infuria, si esalta o si deprime, e soprattutto ci invita a discuterne tutti insieme appassionatamente come di fatti reali... si conferma uno di quegli insostituibili "professori di energia" di cui s'è perso lo stampo». Lietta Tornabuoni SANGUINETI : L'ARTE VIVE D'ANARCHIA ADALGISA DELLE MERAVIGLIE L mio elegio dell'anarchia avanza, in forma velocemente assiomatica (...): tutto quanto, nella modernità trascorsa, ha avuto senso e peso e rilievo, si è sempre fondato, in qualche modo, sopra una pulsione radicalmente anarchica, e se non altro anarcoide, anarchicheggiante. Da Lautréamont a Beckett, da Monet a Duchamp, da Satie a Cage, da Bunuel a Godard, se posso gettare qui qualche nome a caso, e caoticamente, anzi proprio anarchicamente, la modernità è stata questa spinta, se qualche cosa è stata. Potrà sembrare una scelta faziosa, lo so, ma servirà almeno per arginare quell'idea troppo vulgata, per cui la modernità sarebbe stata, e avrebbe voluto essere, in essenza, una forma rassicurante di prospettivismo insieme ferreo e utopico, cieco e occhialutamente pedantesco, gestito secondo un progressivismo lineare, puerilmente assertivo e stoltamente ottimistico. Laddove la modernità, quella per cui Rimbaud escogitò l'imperativo dell'idi faut étre absolument moderne», fu per eccellenza azzardo dialettico, onde schierarsi dalla parte, costantemente, del rischioso e dell'imprevedibile, del contraddittorio e dunque, dalla parte della follia. Un encomio dell'anarchia, per me almeno, anche a gestirlo appena come commemorativamente funerario, e, semplicemente, e magari sbrigativamente, un encomio della follia. E la modernità, sembra non più banale, per molti, il ricordarlo, ahimè, è stata tutta una faccenda di avventura contro ordine, per ricorrere a una forma persino troppo celebre: una questione di delirio contro conciliazione, di frattura contro continuità. E tale fu coartatamente, prima che per libera scelta, per necessità piuttosto che per virtù, come a rispondere alla provocazione delle cose stesse, in nome di un'esigenza, meglio che di vitalità, di pura sopravvivenza. E fu l'espressione, per dire tutto con una parola sola, del tempo della rivoluzione. scorgere tranquillamente il punto comune che quel contrasto, un tempo così teso, ci addita, ribaltando nel futuro un aut aut che suona piuttosto come un et et, e non per inerte conciliazione tardiva, ma per il rivelarsi maturo di una complicità profonda, per volontà di contestazione e di ribellione. Crudeltà e straniamento, in quest'ottica, sono i due volti complementari, e da integrarsi, di quella scommessa di una pratica alternativa concreta, quale, oggi, può definirsi soltanto a partire dal rifiuto della dittatura del mercato. Non vedo, se non muovendo da questa negazione, altra speranza di una nostra anarchia, ovvero, se si preferisce, di mia nostra modernità, cioè di una nostra autentica storia ulteriore. Soltanto così, un progetto d'arte può farsi figura di un progetto di società. E' in questo senso che, personalmente, mi piace discorrere di un realismo allegoricocome comune poetica e comune criterio di scelta. Ma, come avrebbero forse rilevato un tempo i buoni surrealisti, almeno nei loro momenti buoni, quando desideravano un'arte al servizio della rivoluzione, l'anarchia di cui discorro (...) Vorrei evocare, da ultimo, un conflitto che la mia generazione ha vissuto un po' per partecipazione, un po', dipende dai casi e dalla sorte, da spettatrice, e che trovò il suo emblema, a un dato momento, nei nomi gettati a contrasto di Artaud e di Brecht. E si sa che, non di rado, in questo teatro del mondo, sono le modalità della scena, quelle che meglio incarnano, per allegoria, se vogliamo utilizzare bene l'insegna del nostro stesso incontro, la scena del rischio. Oggi, quell'alternativa che pure agitò i nostri ieri, sembra desueta, anzi clamorosamente estinta. Ad ogni modo, non sembra poterci appassionare più. Ma è anche da rilevare che oggi possiamo scorgere tranquillamente il punto comune che quel contrasto, un tempo così teso, ci addita, ribaltando nel futuro un aut aut che suona piuttosto come un et et, e non per inerte conciliazione tardiva, ma per il rivelarsi maturo di una complicità profonda, per volontà di contestazione e di ribellione. Crudeltà e straniamento, in quest'ottica, sono i due volti complementari, e da integrarsi, di quella scommessa di una pratica alternativa concreta, quale, oggi, può definirsi soltanto a partire dal rifiuto della dittatura del mercato. Non vedo, se non muovendo da questa negazione, altra speranza di una nostra anarchia, ovvero, se si preferisce, di mia nostra modernità, cioè di una nostra autentica storia ulteriore. Soltanto così, un progetto d'arte può farsi figura di un progetto di società. E' in questo senso che, personalmente, mi piace discorrere di un realismo allegorico, come comune poetica e comune criterio di scelta. Ma, come avrebbero forse rilevato un tempo i buoni surrealisti, almeno nei loro momenti buoni, quando desideravano un'arte al servizio della rivoluzione, l'anarchia di cui discorro, quando desidero un'arte al servizio dell'anarchia, non può funzionare come una sorta di compensativa scorciatoia estetica. E' una strategia, piuttosto, in funzione di un'allegoria concretamene e sperimentalmente praticabile. Quello che il surrealismo, e forse anche meglio il dadaismo ha sognato, nella sua bene perturbata follia, noi possiamo persino tentare di realizzarlo, e se non altri di prefigurarlo, se soltanto lo vorremo davvero, con mente pura. La follia dell'anarchia, infatti, ha un metodo, è un metodo. O piuttosto, se oso dirlo, è il metodo. Edoardo Sanguineti GLI AMICI DELLA LUGLI Gli amici di Adalgisa Lugli si sono ritrovati al Collegio San Carlo di Modena per un ricordo non rituale, a pochi mesi dalla scomparsa. L'incontro è coinciso con la pubblicazione della sua tesi di laurea su Medardo Rosso, (Allemandi, a cura di Massimo Ferretti, pp. 125, L. 35.000) e con un bel ricordo sulla sua figura di studiosa e di docente nella rivista «Dialoghi di Storia dell'Arte». E Adalgisa fosse qui vicino a me, in questo momento, storcerebbe il naso in un modo solo suo al concetto di mia riflessione storica su di sé; scatterebbe una immediata ribellione contro il risclùo di vedersi costretta dentro un giudizio univoco: non era da lei, avendo combattuto tutta la vita per liberare opere, artisti, collezionisti e musei dalle schedature prescrittive di storicisti senza sensibilità né delicatezze. Lei guardava alle cose (storia compresa) con gli occhi creativi dell'artista e del collezionista, con affetto e curiosità; era studiosa di lunghe attese di fronte agli oggetti del suo amore e lasciava che il rapporto si plasmasse piano piano al calore di mi lungo e discreto corteggiamento. Sembra paradossale parlare di seduzione tra lo storico e il suo tema di ricerca, ma in qualche modo questa era la prova cui si sottometteva per confermare l'autenticità del suo interesse e misurare l'altezza dei risultati che se ne attendeva. Alla fine ne nasceva mi lungo monologo, come una protratta e avvolgente dichiarazione d'amore: la prova espressa in parole della costitutiva attualità di una esperienza analitica. Di qui la rarità dei temi veramente amati e il disagio di chi, non riuscendo a condividere quei dialoghi di intensità estrema, respingeva a priori la sua speciale filologia della passione. 1 libri di Adalgisa restano per molti realizzazioni controverse, provocazioni irritanti, autentiche messe in discussione dei propri convincimenti. Nella densità del rapporto tra studioso e oggetto di ricerca è giusto riconoscere la traccia più autentica del magistero di Francesco Arcangeli, che l'aveva laureata in Storia dell'Arte all'Università di Bologna nel 1969. uomo e Dio, tra arti meccaniche e arti liberali, fino alle difficoltà dell'arte contemporanea di cui Adalgisa fu testimone militante, con 0 suo modo di riflettere insieme sul passato evocato e il presente vissuto. Bruno Toscano è andato ancora più vicino, da amico e collega, alla maturazione mentale e ai risultati globali del lavoro di Adalgisa Lugli. Toscano ha iniziato con la rievocazione di una casa-museo che avrebbe potuto entrare nel canone museale di Adalgisa, il Ricovero degli esposti ad Anversa; mi museo cui ha presieduto non la selezione straniarne della filologia storica, ma piuttosto la carità mtegrale della conservazione, senza quasi interruzione o alienazione, con mi fondamentale investimento sul significato pregnante degli oggetti d'uso. Dal riconoscimento della «materia come qualità autonoma, già prima della fabbrilità» è stato facile per L'incontro di Modena si è aperto, dopo i saluti ufficiali, con le letture di una conferenza di Adalgisa Lugli al Louvre, nel 1992, sui «cabinets de curiosité». Quante volte ho sentito Adalgisa parlare sulla «cultura della meraviglia» e sulla seduzione a sorpresa che conquista i collezionisti di tutti i tempi e li conduce per mano nella creazione di un universo parallelo costruito con pazienza selettiva; la meraviglia che nasce di fronte a quanto «oltrepassa l'attesa» e ci aiuta a «ritrovare il filo di tutto quello che ci sta più vicino». E' poi intervenuto Krzysztof Pomian, autorità internazionale sulla storia del collezionismo, con un omaggio all'opera che rivelò Adalgisa al mondo degli studi: un libro di museologia vivente che porta il titolo Naturalia e mirabilia (1983). Con molta intelligenza Pomian ha ripercorso la storia dei musei in Europa sottolineando i temi discussi nel libro: il rapporto cercato dai collezionisti tra uomo e natura, tra uomo e Dio, tra arti meccaniche e arti liberali, fino alle difficoltà dell'arte contemporanea di cui Adalgisa fu testimone militante, con 0 suo modo di riflettere insieme sul passato evocato e il presente vissuto. Bruno Toscano è andato ancora più vicino, da amico e collega, alla maturazione mentale e ai risultati globali del lavoro di Adalgisa Lugli. Toscano ha iniziato con la rievocazione di una casa-museo che avrebbe potuto entrare nel canone museale di Adalgisa, il Ricovero degli esposti ad Anversa; mi museo cui ha presieduto non la selezione straniarne della filologia storica, ma piuttosto la carità mtegrale della conservazione, senza quasi interruzione o alienazione, con mi fondamentale investimento sul significato pregnante degli oggetti d'uso. Dal riconoscimento della «materia come qualità autonoma, già prima della fabbrilità» è stato facile per Toscano passare all'altro grande saggio di Adalgisa sullo scultore Guido Mazzoni e la rinascita della Terracotta nel Quattrocento ( 1990). L'intervento di Roberto Tassi è stato dedicato in particolare al «sottile intreccio di rapporti umani» tra Adalgisa e il suo docente, tra lo scritto su Medardo Rosso e i corsi di Arcangeli all'Università, si colloca accanto a quello, già evocato, di Massimo Ferretti, come omaggio di una diversa generazione alla intelligenza e alla sensibilità di Adalgisa, al suo sapersi emozionare di fronte alla sorpresa dell'arte. E' stata una vera e commovente meraviglia sentire le citazioni dai testi di Medardo Rosso incrociarsi e confondersi con quelle della sua giovane studiosa: «Io non so che cosa vedo, so che ho un'emozione» (M. Rosso); «l'emozione è il primo stimolo della creatività, ciò da cui nasce l'arte» (A. Lugli). Giovanni Romano

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