« Pronta a difendere Erich »

L'ORRORE DELLE FOSSE « Pronta a difendere Erich » La vedova Kappler: obbedì agli ordini L'ORRORE DELLE FOSSE ... ... SOLTAU (Bassa Sassonia) DAL NOSTRO INVIATO Di una fotografia è orgogliosa, soprattutto: quella che la ritrae col camice - la sua divisa di «terapeuta in medicina naturale» - mentre sul tavolo del ripostiglio impacchetta scatole di carne e di biscotti, marmellate e frutta allo sciroppo «da spedire a Herbert Kappler», come si ostina a chiamare suo marito. Un'altra fotografia soltanto, probabilmente, riesce a intenerirla ancor di più, a farle inumidire gli occhi, a farle ripetere che «per Herbert Kappler ho avuto sempre amore, soltanto amore»: l'immagine sbiadita che li ritrae insieme nella stanza di ricevimento della prigione militare, nel '75: lui insidiato già dal male, si direbbe, la giacca di lana grossa a quadri sulla maglia a giro collo già troppo larga, la sigaretta accesa e l'accendino fra le dita a sfiorare, quasi, due rose in un bicchiere; lei protettiva come sanno esserlo le chiocce, la mano del marito affondata nella sua, gli occhi che gli sorridono di pena. Il paradosso di Annelise Wenger Kappler - affascinata da un uomo prigioniero non soltanto della giustizia militare, ma della storia e delle sue terribili sentenze - comincia e finisce in queste foto. La sua vicenda, dall'incontro con il colonnello prigioniero, nel '62, alla fuga dal Celio il ferragosto del '77 («quando feci tutto da sola, anche se nessu no mi ha creduto»), fino alla fine il 9 febbraio dell'anno successivo e alla vampata inattesa e insospettata del processo a Priebke, tutta la storia è già in due foto: sunto esibito di quello che frau Annelise, nel salotto colmo di tappeti e di poltrone affacciato a un giardino acerbo, chiama oggi, a 70 anni, «l'amore di una vita». Se dovrà testimoniare, già lu ned! forse, darà ragione a Priebke che sostiene di non aver potuto sottrarsi all'ordine di uccidere, o a suo marito che in un'intervista alla tv disse il contrario? «Se andrò a Roma - ma non mi hanno chiamata, ancora - dirò che Priebke non poteva fare altro: era un ordine del Fuhrer, e si era in guerra». Suo marito tuttavia sostiene che i suoi subordinati avrebbero potuto rifiutarsi, senza correre alcun rischio. «Quell'intervista potrebbe essere un falso. Oppure potrebbe essere la conseguenza di una fortissima emozione: in quei giorni mi ero ferita gravemente cadendo dalle scale, e lui sembrava pazzo dalla paura e dall'ansia». Lei dunque difenderà Priebke, in tribunale. «Non dovrò difendere nessuno, dovrò soltanto dire la verità. E la verità è per Priebke: ha obbedito a un ordine al quale non poteva disubbidire». Crede che l'ordine sia più forte della coscienza, sempre? «Forse no, ma un fantastico feldmaresciallo inglese, Montgomery, ha detto: "I soldati devono obbedire, anche se dentro di sé gridano contro quegli ordini"». Lei conosce bene l'ex maggiore Hass: cosa pensa del suo comportamento al processo? «Lo conosco, sì, come conosco bene la sua ottima famiglia. Di lui non posso fare a meno di meravi- gliarmi: nonostante abitasse in Italia e sapesse dov'era Herbert Kappler, in 32 anni non è andato una volta a trovarlo». Per paura di esporsi e compromettersi, forse? «Non so, non gliel'ho neanche chiesto, anche se avrei potuto. Ma non ho voluto»: Si è mai sentito colpevole, suo marito? «Si è sempre considerato colpevole, davanti a Dio: non di quello che ha fatto, ma di quello che ha dovuto fare. Dovete ricordarvelo: mio marito non era un nazista accecato dall'odio, era un uomo cresciuto nel primo dopoguerra come milioni di altri uomini, in Germania». Sta dicendo che suo marito non era nazista? «Credeva nel buono del sistema». E lei, lo è mai stata? «No, ma la mia è una lunga storia. Mio padre era un ex combattente, e in Hitler vide subito il leader che voleva aiutare la sua gente. Ma dopo l'eccidio delle SA, mio padre rinunciò alla politica: non se ne occupò più, e vietò anche a noi ra- gazzi di iscriverci al partito»: Si è mai vergognata, o si è mai sentita in imbarazzo, ad essere la moglie di un criminale di guerra, di un ex comandante deUe SS? «Mai. Lo amavo, e lo accettavo per quel che era ed era stato. L'amore fra noi valeva più di ogni altra cosa. L'ho sposato soltanto per que- sto, per amore. L'amore per me era al di sopra di tutto: anche della pietà che provavo per lui alla fine. Anche della responsabilità». Crede che non ci sia nessuna differenza tra responsabilità obiettiva e colpa? «Credo che in guerra si eseguano soltanto gli ordini. In tutte le guerre, allora come adesso». Gli ordini sono tutti uguali? «Non lo si può dire, no. Mio marito in ogni caso non poteva non eseguirli. Ma dove ha intravisto una possibilità, come quando avrebbe dovuto evacuare l'intera popolazione maschile da Roma, ha cercato di evitarlo». Dal giorno della fuga, è mai tornata in Italia? «Una volta, nel dicembre del 1991 : per cercare di capire che cos'era successo al mio editore italiano, Cesare Ardini, che per le 50 mila copie vendute del mio libro («L'affaire Kappler») mi aveva dato soltanto 7000 marchi, prima di morire in circostanze misteriose. In quell'occasione cercai anche di farmi ricevere al Quirinale, ma il mio autista correva troppo e la polizia mi fermò: gli agenti mi riconobbero e tutti erano curiosi di vedermi, ma arrivò l'ordine dal ministero: "persona non grata". Rimasi in stato di fermo qualche ora, poi mi scortarono al Brennero. Da allora non sono più tornata». Rivedrà volentieri Roma? «(Agli italiani ho sempre voluto bene, e in Italia ho ancora molti amici». Il passato è difficile, per lei? «No. La mia vita è stata molto interessante». Emanuele Novazio «Un falso l'intervista in cui mio marito sosteneva il contrario» «Se mi chiamano da Roma, andrò a raccontare tutta la verità» «Herbert si è sempre considerato colpevole ma davanti a Dio» «Non mi sono mai vergognata per il passato di mio marito» Erich Priebke

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