«Riina nome maledetto»

13 dt Firenze, al processo per le autobombe: «Mia moglie è disperata, i pentiti ci stanno rovinando» «Riina, nome maledetto» V/ boss: caricati di colpe non nostre FIRENZE DAL NOSTRO INVIATO Come animali in gabbia, dicono perché il rito è a porte chiuse. Tre passi per misurarne la larghezza, la voglia di afferrarsi alle sbarre, di guardare laggiù, in fondo, dov'è il giudice che deciderà sul rinvio a giudizio. Ognuno in un recinto, soltanto Benigno Salvatore, di Misilmeri, e Pizzo Giorgio, di Palermo, sono insieme, al numero 2. Ma il capo si comporta da capo: immobile, attento, duro, forse appena infastidito, ma impassibile. L'altro giorno hanno arrestato suo figlio Giovanni, a Corleone, per omicidio, e dicono che sia stato il suo esordio. Nella gabbia numero cinque Totò Riina tace a lungo, poi rivolto al difensore, quello di Firenze, sibila: «Vi prego, telefonate agli avvocati, giù a Palermo, perché devono fare di tutto, devono fare il ricorso al Tribunale della libertà. Giovanni deve uscire». Gli chiede l'avvocato fiorentino Pier Giorgio Maffezzoli: «Ha sentito, la notizia? Quella di suo figlio?...». «Ho sentito, mi è giunta all'orecchio». Con gli occhi piccoli, miopi, guarda davanti a sé, poi riprende: «Quegli infamoni dei pentiti, ci stanno rovinando». Tutto per il nome, tutto perché si chiama Riina, dice. «Avvocato, non mi abbandoni, mia moglie è disperata, mia figlia, pure». «A questa gente bisogna fargli capire che io sono come un pesce fuor d'acqua. Da un po' di anni tutto quello che succede è sempre colpa di Riina. Ecché, ero in carcere, quando ci furono quelle bombe: voglio far venire a testimoniare il direttore». Sì, perché di bombe e di stragi, si tratta. A Roma, Firenze e Milano, nel 1993, con morti e feriti: dieci morti e 94 feriti, e la paura di essere in babà di chissà chi. Ora ci sono 36 imputati, i capi di Cosa Nostra: Provenzano, Riina, suo cognato Bagarella, e Brusca, lo strangolatore. Erano soltanto in 11, ieri, nell'aula bunker: Bagarella ha occupato la gabbia numero 1, la più vicina al giudice; più indietro Ferro Giuseppe, di Alcamo, considerato fra gli ideatori della strategia delle bombe. Stava disteso su una barella, i capelli grigi scomposti, gli occhi fissi al soffitto. «Sugno malato», ha ripetuto a lungo, e pareva un'invocazione, ma diretta a loro, agli altri uomini del disonore. Perché lo sa bene, lui, di avere molto da farsi perdonare: per esempio quel suo figlio, Vincenzo, che è diventato «collaborante», insomma, si è pentito e ha tradito la cosca. E' medico, l'«infamone», come ripete Riina, e a un certo punto dev'essergli ripugnata l'idea di passare la vita a ideare delitti. Chi è stato colpito, si è costituito parte civile. Anche i ministeri degli Interni, dei Lavori Pubblici, della Pubblica Istruzione e dei Beni culturali, e la presidenza del Consiglio. Ma anche il Vaticano, ma c'è tempo, fino al processo. Poi una trentina di privati e fra gli altri Maurizio Costanzo e i gestori della pensione «Quisisana», quella del film «Camera con vista». C'è l'architetto Luigi Cardarelli, dell'Associazione familiari vittime delle stragi: la sua è una strada che parte dal 1974, quando una bomba fece saltare il treno Italicus. E c'è Walter Ricoveri, che abitava sopra il ristorante «L'antico fattore», quello reso celebre dai macchiaioli, sventrato dalla bomba di via dei Georgofili. Dice: «Non è stata una strage soltanto di mafia, è politica. C'è da capire la strategia politica attraverso la volontà politica. Insomma, queste son state stragi stabilizzanti e non destabilizzanti». Perché? «Perché sono state fatte per obbligare i benpensanti a non cambiare. E poi i mandanti veri non sono ancora stati identificati. Speriamo molto nella Procura di Firenze, ma sembra mancare la volontà politica per fare emergere tutta la verità». Già, l'indagine sui mandanti perché, con tutto il rispetto per la bella mente criminale di Rima o Brusca, in molti rimane il sospet to che anche dietro le bombe del'93 ci siano ispiratori nascosti. «Francesca non sta bene», risponde Giovanna Maggioni Chelli a chi gli chiede notizie sulla figlia Lei, Francesca, era studentessa di architettura, e in quella notte maledetta del 27 maggio fu ferita, soprattutto, vide bruciare il suo ragazzo, Dario Capolicchio. Ora Francesca ha lasciato l'università, si dedica al restauro, e lo sa bene che non potrà mai dimenticare. «Ho visto in faccia Riina, mi ha fatto quasi pena», dice sua madre. «Sì, mi sembrano delle vittime. Non ho capito fino a che punto questi delinquenti siano veramente i responsabili. Sono degli esecutori. E lui, Riina, è diventato un po' il baraccone da esibire per l'Italia». Entro sabato Giuseppe Soresina, gup, deciderà i rinvii a giudizio per strage. Ha commentato Leoluca Bagarella: «Tutte fesserie, minchiate». Vincenzo Tessandori «Io ero in carcere quando furono messe quelle bombe Voglio che venga il direttore a testimoniare» dt A destra Totò Riina, in aula ieri a Firenze A sinistra un'immagine della strage di via dei Georgofili a Firenze. Sotto accusa per l'attentato c'è il vertice della mafia