Evviva, c'è uno Stalin sul palco Un sosia arringa la marea di bandiere rosse
«mgm Un sosia arringa la marea di bandiere rosse MOSCA DAL NOSTRO INVIATO Stalin è ben piantato sul camion foderato di bandiere dal rosso sugoso, squillante, che fa da podio per il comizio comunista. Ha la divisa e il cappello olivastro, i baffi arrotolati sull'eterno sorriso beffardo e sfuggente. Afferra il microfono con impeto e si sporge per inveire contro i traditori, i corrotti,: democratici asserviti al capitalismo straniero. Lo saluta una ovazione e quando scende dal camion tra la folla che alza le icone sue e di Lenin cento mani gli sono attorno, lo stringono, lo coprono di un mantello affettuoso. Uno Stalin a Mosca il 12 giugno del 1996, tra bombe misteriose e elezioni balbettanti. Pashalv Azirkhan, in realtà, è un furbo daghestano che guida gli incerti destini del Movimento popolare democratico staliniano, una delle mille sigle che compongono l'arcipelago della nuova glaciazione comunista, un apostolo di Ziuganov lanciato alla riconquista di Mosca. Lui gigioneggia nel suo folgorante travestimento, la mani incrociate sul ventre come l'ex padre dei popoli: «Quando vado in giro vestito così sono una calamità, perché per la maggior parte dei russi Stalin è ancora vivo. Da quando sono venuto a Mosca per portare il sostegno del mio partito a Ziuganov, la gente mi ferma per la strada e mi chiama con il patronimico di Stalin». «Noi bolscevichi siamo di una stoffa differente da quella degli altri uomini» diceva Stalin, quello vero. Eccoli qua, in piazza, gli ingranaggi del nuovo buldozer totalitario che fa bollire il grande alambicco russo, i fedeli irriducibili di un astro che si credeva ormai morto, ultimi pellegrini del grande viaggio al termine della notte sovietica. Come nel '17 la Russia è una tabula rasa e il partito può lanciarsi per realizzare i suoi fantasmi. Ci vuole un bel coraggio (o tanta sicurezza) per srotolare un corteo proprio qui, davanti alla Lubianka che esibisce il suo triste passato e il suo ambiguo presente come il blasone di una Bastiglia inespugnabile. Attorno a una aiuola, quello che resta delle glorie appassite di Dzerzinski, hanno piantato le loro bandiere e le certezze di possedere la verità. Queste elezioni sono una lotta darwiniana in cui soprawiverà il più adatto. Per la resurrezione della più grande utopia della Storia ti aspetteresti allora un partito-macchina possente, segreto, che dissimula il suo essere, le sue finalità, i suoi mezzi, peritino la sua dissimulazione. Trovi invece un programma ultramoderato, mezzo Major e mezzo Kruscev, quello che già quarant'anni fa voleva imburrare il comunismo. Soprattutto in piazza trovi gente anziana, gente che ha già guadato tutti i relitti che la marea dell'Urss, ritirandosi, ha lasciato dietro di sé. Non ha medaglie il vecchio generale che agguanta per i denti la grande domanda, rovesciandola: «I gulag? Erano pieni di noi comunisti. Dicono che se andiamo al potere porteremo via tutto a tutti, ma a noi che cosa hanno lasciato?». Il vecchio prete viene avanti tra le bandiere rosse, benedicendo con un crocifisso di piombo: «I miei parenti non sono mai stati comunisti, i miei genitori non sono mai stati comunisti, ma io sono qui perché ci deve essere un prete tra i poveri, tra gli umiliati e gli offesi. Stalin è come Gesù Cristo, è nato come lui da una famiglia povera, come lui ha sacrificato un figlio nella guerra patriottica. Lenin e Stalin hanno perseguitato la gerarchia della Chiesa, non la religione, erano dei credenti». Dal fondo di una Russia piagata dalla perdita della memoria avanza un mondo condannato ormai a una vita anaerobica che ha trovato l'ossigeno per respirare. Difficile credere, tra questi vecchi che intonano vecchi inni, alle accuse di strategie terroristiche, di bombe lasciate di notte nelle stazioni della metropolitana. Per capire quanto il tempo è cambiato basta un signore elegante, che indossa un paio di oc¬ chiali da sole birichinamente montati sul rosa che segue paziente il corteo, ignorato da tutti. Soltanto cinque anni fa scivolava su queste strade nascosto in una limousine nera: Ghennadi Janaev, potente della nomenklatura, golpista pasticcione che affossò l'Urss. Il suo è uno stalinismo molto dolce: «Il programma dei nostri primi cento giorni, se vinceremo, è chiaro: governo di coalizione a cui parteciperanno anche alcuni dei nostri ministri, nessuna vendetta, nessuna attacco alla proprietà, nessuna divisione del Paese tra bianchi e rossi. Moi non mettiamo bombe, sono sciocchezze, stupidaggini, provocazioni. Tra i movimenti del nostro fronte ci sono certamente toni diversi, la mentalità sovietica è vissuta per 70 anni e non è certo scomparsa ma se qualcuno farà dell'estremismo, allora sarà cacciato». Si allontana tranquillo Janaev. Peccato ci sia un cartello che, con un vistosa stella di davide e un gioco di parole, rovescia su Ga ydar, economista ultraliberale, le accuse di ladro e di ebreo. Peccato ci sia Boris Yunko, direttore di «Russia dei lavoratori», uno dei leader del partito comunista ope raio, alleato molto critico di Ziu ganov: «E' vero, il programma di Ziuganov non è comunista, è fatto nell'interesse del capitalismo russo, è sempre meglio di quello dei nuovi ricchi criminali ma è pur sempre capitalismo». Domenico Quirico C'è anche un vecchio prete: «E' mio dovere stare tra gli offesi» JSfc^ Una ragazza con una t-shirt con la scritta «No» cerca di fermare il corteo comunista ieri a Mosca
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