«Ho sparato per primo»

«Ho sparato per primo» «Ho sparato per primo» «Ci dissero: dobbiamo dare l'esempio» L'EX NAZISTA Al GIUDICI KARL Hass, lei sparò alle Fosse Ardeatine? «Tra i primi. C'erano Kappler, Priebke e il capitano Kolher. "Dobbiamo dare l'esempio ai nostri soldati", ci disse Kappler. Ed entrammo». Ricorda come? Sparammo un colpo alla nuca dei prigionieri con la mitraglietta». Un colpo per ogni persona? «Sì, un colpo solo». Ricorda come entravano le vittime nelle cave? «Li facevano entrare i militi del comando di Kappler, dopo avergli legato le mani dietro la schiena». La deposizione di Karl Hass, anziano ufficiale delle SS, già addetto allo spionaggio attivo, poi cooptato dalla Cia, dal Sifar e anche dal servizio segreto tedesco occidentale, è un lungo precipitare nell'orrore. Lui, Hass, ne parla con tono monocorde. Solo ogni tanto ha scatti emotivi, ma contro gli avvocati di parte civile. «Fatemi domande intelligenti, io risponderò». «Ma questo l'ho già detto». «Che volete che importi ai morti, di questo». E via polemizzando. Gli chiedono: lei quanto tempo rimase alle Fosse Ardeatine? E lui: «Il minimo indispensabile. Per uccidere due persone non ci vuole molto tempo. Un quarto d'ora circa. Poi tornai al mio ufficio in villa Volkonsky». Naturalmente le domande ruotano soprattutto intorno a Priebke. Si ricorda dov'era e cosa faceva alle Fosse Ardeatine? «Priebke aveva in mano un elenco e controllava i nomi». Di chi entrava nelle cave o di chi scendeva dai camion? «Che domanda. Di chi scendeva Chi entrava era già controllato». Hass, lei fu uno dei primi ad arrivare a via Ras ella. «Ero a pranzo con una signora in un ristorante sul lungotevere. Sentii il botto. Mi precipitai. Tro vai Kappler e gli dissi: "Che posso fare?". E lui: "Non ti immischiare in cose che non ti riguardano". Così me ne andai». Già, ma di che cosa si occupava esattamente Hass a Roma, nell'estate del 1944? «Organizzavo una rete di informatori. Quando ci ritirammo, lasciai cinque o sei radio clandestine che dovevano trasmettere informazioni al nostro comando». Hass, insomma, sostiene che lui non aveva nulla a che fare con il controspionaggio, né con la prigione di via Tasso - «Dove andai due o tre volte solo perché c'era il centro culturale dell'ambasciata» - né con Priebke. Erano amici? «Non proprio. Eravamo commilitoni. Fuori dal lavoro, la sera, frequentavamo gente diversa. E dopo il periodo di Roma non ci siamo più visti, finché lui, moltissimi anni dopo, un certo giorno non bussò alla porta di casa mia a Roma. Chissà come aveva avuto l'indirizzo. Era con la moglie a fa¬ re il turista. Andammo a pranzo a via del Tritone. Parlammo del più e del meno, mai della rappresaglia». Già, la rappresaglia. Priebke è in galera da diversi mesi per quella «rappresaglia». Hass corre più di qualche rischio. Molto meglio scaricare le colpe sui morti. Ecco dunque che Hass ci va giù pesante con Kappler: «Lui era il responsabile. Secondo me, solo Kappler poteva rifiutarsi. Non lo fece perché voleva fare bella figura con i superiori. I subordinati, invece, non potevano rifiutarsi. Chi si rifiutò, lo fece in modo strano, svenendo. Quando si sono ripresi, nessuno li ha obbligati a sparare. E senza conseguenze». Eppure nelle interviste dei giorni scorsi, Hass aveva largheggiato nelle accuse contro Priebke. Aveva citato l'arresto di Mafalda di Savoia. E invece ecco cosa dice al tribunale: «Kappler mi chiese di andare a casa della principessa e di av- venirla che, se voleva parlare con il marito, doveva venire in ambasciata». Di più non dice. E nessuno pone domande. Ma è chiaro che è lui, Hass, che eseguì la famosa «operazione Abeba» che portò la figlia del re a morire in un lager nazista. Oppure si prenda l'eccidio della Storta, dove morì Bruno Buozzi. Aveva accusato Priebke anche di questo. Sotto l'incalzare del difensore Velio Di Rezze, però, Hass ammette: «Andammo insieme, il 15 maggio 1944, io e Priebke, al campo di prigionia di Mauthausen. Dovevamo interrogare Mario Badoglio, il figlio del maresciallo Pietro. Più Priebke che io, a dire il vero, perché lui parlava bene l'italiano e io no. Quando tornammo? Il 4 giugno, all'alba. Proprio il giorno degli americani». Et voilà. Scagionato Priebke anche dall'omicidio di Buozzi e degli altri tredici ostaggi, visto che l'eccidio avvenne lo stesso 4 giugno 1944, ma qualche ora prima e già fuori città. Gli avvocati di parte civile si erano invano scontrati in lungo e in largo con il presidente del tribunale, Agostino Quistelli, per cercare di far entrare la morte di Buozzi in questo processo. Tutto inutile. Ci ha pensato il difensore di Priebke, in via assolutamente indiretta. Così l'avvocato Velio Di Rezze è giustamente orgoglioso, all'uscita: «Gli ho fatto dire la verità su Buozzi. Da un personaggio del genere non bisogna prendere tutto quello che dice per oro colato», [fra. gri.l L'ORDINE DI KAPPLER «Soltanto lui poteva rifiutarsi Non lo fece perché voleva fare bella figura con i superiori» LE FASI DELL'ECCIDIO «Colpimmo alla nuca i prigionieri con la nostra mitraglietta Nella cava avevano le mani legate» Nella foto in alto a destra Erich Priebke Sotto, l'udienza di ieri Sopra, Kappler e a fianco Hass

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