Sicilia, così è affondata l'isola del tesoro

Sicilia, così è affondata l'isola del tesoro Da «paradiso» a fabbrica di disoccupati: ma il declino iniziò solo nel '600 Sicilia, così è affondata l'isola del tesoro «Idi questi giorni la notizia / che il record della disoccupazione in Italia spetta a un comune siciliano, Santa I Margherita di Belice: laggiù i disoccupati sono l'88,8% della forza lavoro. La Sicilia del resto è in assoluto la regione con la più alta percentuale di iscritti alle liste di collocamento, il 32,3%; in molti paesi dell'Isola i due terzi della popolazione attiva sono disoccupati. Come si spiega che una regione considerata nell'antichità il granaio dell'Impero romano, e ancora nel Medioevo crocevia della civiltà mondiale, sia condannata da secoli al ristagno economico? E più in generale, com'è possibile che il Mezzogiorno, creduto un tempo il depositario di favolose ricchezze, tanto che per conquistarlo re e imperatori erano disposti a sperperare tesori e rischiare la vita, sia oggi una delle zone più depresse d'Europa? La storiografia del primo '900 credeva d'aver trovato la risposta nel dominio straniero, cui il Sud è stato assoggettato per gran parte del nostro millennio; le opinioni, però, erano discordi sui maggiori colpevoli. Il Mezzogiorno era già depresso sotto i Normanni e poi sotto gli Svevi, oppure la responsabilità del suo declino va attribuita alla rapacità del fisco angioino o, ancora, alla frattura tra la Sicilia e il continente prodotta dai Vespri siciliani? Oggi la teoria economica preferisce spiegare l'arretratezza del Meridione con la sua secolare dipendenza dal commercio estero. Gli alti profitti garantiti ai latifondisti dall'esportazione del grano impedirono lo sviluppo industriale e creditizio del Sud; il commercio non era gestito da imprenditori locali, ma da mercanti toscani e genovesi, favoriti dai monarchi stranieri che regnavano a Napoli e Palermo. Per il Mezzogiorno si configurava così una dipendenza di tipo coloniale dal credito e dal commercio del Nord; al sottosviluppo economico corrispondeva sul piano sociale lo strapotere della feudalità, che soffocava lo sviluppo delle borghesie urbane e schiacciava i contadini. Stephan R. Epstein, docente alla London School of Economics, nel suo libro Potere e mercati in Sicilia (secoli XIII-XVI), appena tradotto da Einaudi, rimette in discussione questo modello consolidato. La Sicilia che emerge dalle sue ricerche d'archivio è un'isola ricca e soprattutto dinamica, tutt' altro che condannata al ristagno; le tre regioni che storicamente la compongono, il Val Demone, il Val di Noto e il Val di Mazara, appaiono diversamente specializzate, capaci di investire anche in settori alternativi alla cerealicoltura (la seta, le miniere, lo zucchero...) e di inserirsi vantaggiosamente sui mercati europei. A giu¬ dizio dello storico inglese, il predominio dell'esportazione non configura, qui, una dipendenza di tipo coloniale, ma è il frutto di una politica consapevole di specializzazione, diversificata da una zona all'altra; ad essa non partecipano soltanto i capitalisti stranieri, ma le élites locali e addirittura i contadini, proprio come accadeva in altre aree dell'Europa occidentale, destinate a una duratura prosperità. Resta aperto, allora, un problema: quando e perché il Mezzogior¬ no cominciò davvero a perdere terreno? L'ipotesi di Epstein è che la svolta cruciale nelle fortune dell'Italia meridionale sia avvenuta nel Seicento, quando la Sicilia, che nel Regno rappresentava l'area di maggior dinamismo produttivo e commerciale, cominciò a incontrare crescenti difficoltà sui mercati internazionali. Il Val di Noto, i cui porti erano Catania e Siracusa, si era specializzato nel commercio col Levante, ed entrò in crisi per primo, in seguito all'espansione dell'Impe- ro ottomano e alla guerra permanente tra Turchi e Cristiani. Il Val Demone, che faceva capo a Messina e più di tutti si era dedicato a produzioni di tipo industriale, non potè reggere la concorrenza dello zucchero americano e della seta lombarda, e fu poi travolto dalla crisi generalizzata dell'industria serica verso la metà del Seicento. Per ultimo cominciò a segnare il passo il Val di Mazara, cioè la Sicilia occidentale; qui era concentrata la produzione dei cereali, e qui, dove oggi la disoccupazione sfiora in qualche comune il 90 per cento, ancora in pieno Seicento i feudatari facevano a gara nel fondare nuovi villaggi, per richiamare braccia ed espandere la coltivazione del grano. Ma poco più tardi il declino demografico dovuto alla peste e la concorrenza di nuovi produttori, come l'Europa orientale e il Nordafrica, ridussero la richiesta di cereali sul mercato europeo; una politica di giudizioso sostegno da parte della Corte di Napoli avrebbe potuto salvaguardare almeno il mercato interno, ma quella politica mancò. Il Mezzogiorno continentale, spopolato dalla peste, agitato dalle rivolte, schiacciato dalla fiscalità, irto di barriere doganali e privo d'ima rete stradale adeguata, sprofondò nel declino economico e trascinò con sé la Sicilia, rimasta priva d'un mercato capace di sostenere con la domanda il suo sviluppo agricolo e industriale. Toccherà agli specialisti giudicare la validità delle tesi di Epstein; ma la sua riscoperta d'una Sicilia dinamica e intraprendente, protesa alla conquista dei mercati mediterranei e del tutto ignara di malinconie gattopardesche, ci costringe fin d'ora a ripensare in termini inediti la formazione secolare dell'identità siciliana. Alessandro Barbero Era il granaio dell'impero romano ora ha il record dei senza lavoro Prima la crisi della seta poi lo spopolamento: ecco le tappe del «crollo» I templi di Agrigento in un dipinto di Philip Hackert; sopra, una festa campestre nell'800

Persone citate: Alessandro Barbero, Einaudi, Epstein, London, Philip Hackert, Stephan R. Epstein, Turchi