Cronaca d'un massacro in Algeria

Cronaca d'un massacro in Algeria Dall'irruzione nel monastero ai misteri di un messaggero e di un'audiocassetta Cronaca d'un massacro in Algeria 156giorni di prigionia dei sette frati francesi fi GIUSTIZIERI DELL'ISLAM PARIGI ELLA notte fra il 26 e il 27 marzo un gruppo di uomini a viso scoperto arriva al villaggio algerino di Ain Elrais, a qualche chilometro dal monastero di Tibéhirine. Requisiscono dei taxi, e verso l'una e mezzo si presentano alla porta del monastero. Bussano a un vetro, svegliano il guardiano Mohamed, e chiedono di fra Lue per curare dei feriti gravi. A questo punto, due versioni divergono: secondo la prima, il frate medico rifiuta di uscire da solo in piena notte, accampando anche il pretesto dell'età (82 anni). «Cerchi di ricordare, lei mi ha già curato», esclama uno dei membri del gruppo. «Come te, ne ho curati a migliaia» ribatte il religioso. Il commando sveglia allora il priore della comunità, Christian de Chergé, che risponde: «Sono d'accordo con lui». Per reazione, i due frati vengono sequestrati assieme ad altri cinque. Solo fra Jean-Pierre e frate Amédée vengono dimenticati. Quanto al guardiano, è ritrovato l'indomani, nascosto in giardino e infradiciato dalla notte di pioggia. La seconda ipotesi, ritenuta più probabile, è quella di un rapimento premeditato. Oltre che dai fili del telefono tranciati, è corroborata dal fatto che i sequestrati sono stati solo sette. Chi aveva dato l'ordine non poteva sapere che quella notte erano nove i frati nel monastero: Paul Favre-Miville era rientrato il giorno prima dall'Alta Savoia, e Bruno Lemarchand dalla dipendenza del monastero a Fès (Marocco). Messe le mani sui sette ostaggi previsti, i rapitori avrebbero dunque ces sato le ricerche. Dove sono andati poi? Si ri trovano le tracce del loro passaggio a Guerraou, una località che non si raggiunge senza attraversare l'asse stradale Bli da-Médéa. Sul fianco della montagna dei muli attendevano il gruppo. Poi, non si sa più nulla. Unica certezza: a Tibéhirine, i due monaci rimasti hanno detto messa alle 4 di notte. Premeditato o no che fosse il sequestro, l'idea del rapimento già ossessionava i monaci. C'era stato un precedente, degenerato in un massacro, il 27 dicembre 1994 al presbiterio del Padri bianchi di Tiezi Ouzou. E un anno prima, il 14 dicembre 1993, presso Blida erano stati trovati i cadaveri di quattordici tecnici croati, evirati e sgozzati. L'eccidio era stato attribuito a Sayah Attia, lo stesso che la notte del 24 seguente si sarebbe presentato al monastero di Tibéhirine per chiedere denaro e, già allora, le cure di fra Lue. Semplicemente, ma fermamente, il priore gli aveva negato entrambe le cose. «Non avete scelta», aveva minacciato il terrorista. Ma le armi non potevano avere diritto di cittadinanza nel monastero, tanto meno la notte di Natale. Attia non insistette, ma non garantì l'«aman», cioè l'impegno di protezione. Questi due eventi del dicembre 1993 cambiarono la vita della piccola comunità monastica, fino ad allora così tranquilla. Il priore Christian de Chergé scrisse il suo testamento spirituale. Poi si decise di or¬ ganizzare una votazione. Alcuni monaci volevano rimanere sul posto, altri preferivano trasferirsi in Marocco. Di fronte a questo disaccordo, il priore decretò una pausa di preghiera e meditazione. Si poteva andar via senza dar l'impressione di tradire la gente del posto? Il vo.to segreto che seguì fu unanime: i frati decisero di restare. E non ebbero ripensamenti, benché a ogni nuova minaccia seguisse un'ulteriore consultazione. Dopo il rapimento, il comunicato numero 43 del Gruppo islamico armato con la firma dell'«emiro» Djamel Zitouni datato 18 aprile (a ventisei giorni dal sequestro) e pubblicato il 26 al Cairo dal quotidiano «El Hayat» viene accolto con sollievo: la rivendicazione è finalmente arrivata, i monaci sono vivi, in mano a un gruppo organizzato. Per liberarli, si chiede alla Francia di far rilasciare Abdelhak Layada, un estremista estradato dal Marocco e detenuto in Algeria. Una pretesa evidentemente impossibile. Gli eventi precipitano. Il 30 aprile un messaggero del Già lascia un pacchetto all'ambasciata di Francia. Pretende una ricevuta, che gli viene rilasciata. Nel plico c'è una lettera che ribadisce le condizioni del Già e un'audiocassetta della durata di un quarto d'ora, con la voce di ognuno dei sette monaci. La registrazione è avvenuta il 20 aprile, come prova un bollettino d'informazione diffuso quel giorno dalla radio franco-marocchina «Medi 1», che si sente in sottofondo. Ognuna delle sette voci viene identificata dall'arcivescovo di Algeri, che esita solo su quella di Celestin Ringeard, che conosce meno bene. Il seguito è mistero: la cassetta è stata passata ai servizi militari di sicurezza algerini? «Io non faccio il postino» risponde l'ambasciatore francese. I contatti sono forse ripresi tramite il famoso messaggero? La Francia ha tentato di trattare direttamente con il Già? I monaci vengono decapitati il giorno 21 maggio. I loro resti sono ritrovati il 30 maggio ai bordi di una strada, a qualche chilometro da Medea. Erano stati sepolti, poi riesumati, cosa contraria alle regole islamiche Ma da chi? Dal Già, o dalle autorità algerine? E' solo l'ultimo punto interrogativo di un «affaire» dalle molte zone d'ombra. Henri Tincq Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» Un'immagine dei frati del monastero di Tibéhirine prima della tragedia

Persone citate: Abdelhak Layada, Attia, Bruno Lemarchand, Celestin Ringeard, Djamel Zitouni, Hayat, Henri Tincq, Paul Favre-miville, Savoia