Da Ingres a Delacroix che romantica opulenza

Da Ingres a Delacroix che romantica opulenza a Parigi, maestri ed epigoni del primo '800 francese, tra epica e pettegolezzo Da Ingres a Delacroix che romantica opulenza fi I PARIGI I può anche avanzare per% plessi, nell'ardimentosa il mostra che il Grand Palais, OLÌ con profluvio di opere, sottratte per lo più alla polvere ottusa degli «inferni» dei musei (dove la dittatura progressiva dell'ideologia modernista li aveva sotterrati da decenni), si può vagare per un attimo disorientati, tra tanta contraddittorietà di proposte e risultati, se non si riflette con un minimo d'intelligenza al titolo stesso della grandiosa rassegna: Gli anni romantici. Non l'ambizione impossibile dunque di raccogliere soltanto i frutti di un'illocalizzabile «poetica» romantica in pittura, che sappiamo quanto sia impresa vana (e Delacroix, il più romantic di tutti, quando si sentì apostrofare dal bibliotecario dell'Assemblea Nazionale ove lavorava in qualità di freschista come «il Victor Hugo della pittura» si risentì moltissimo, non perché non amasse il poeta, o lo offendesse quel confronto, ma perché si riteneva, come rispose piccato, «un puro classicista»). Si badi infatti al sottotitolo: 1815-1850. Questa era dunque la pittura (non necessariamente dei Salons) che teneva la scena in quegli anni nevralgici, dalla caduta napoleonica di Waterloo al rientro di Luigi XVIII a Parigi, dall'interregno di Carlo X alla presa di Algeri, dalla proclamazione «democratica» di Luigi Filippo Re dei Francesi (e non più della Francia), al colpo di Stato di Luigi-Napoleone Bonaparte che diventa imperatore col nome di Napoleone DI. E dall'esilio appunto 1815 di David per castigo borbonico, sino a quello di Hugo, 1851, per fuggire i fulmini di restaurazione dell'Impero. Ed era proprio Hugo a cantare: «La Rivoluzione dell'89 ha forgiato le trombe, il Diciannovesimo secolo le suona». Così anche la mostra (che insolitamente verrà a Piacenza, speriamo nella sua integrità: ma è un «evento» da salutare comunque con gioia e sorpresa) si muove tra due estremi. Da un lato il bellissimo, bronzinesco, ritratto di M.me de Senonnes di Ingres, con quelle sue creme glassate di colore, e quelle trine ed anelli e monili, e quella fonda e misteriosa riflessione della nuca coiffata nello specchio, con infilzati nella cornice una selva di allusivi bigliettini foscoliani e nell'aria quella compostezza solo apparentemente algido-neoclassica con quel vellutato braccio al proscenio troppo spropositato che avrebbe suscitato le ironie di quel pedante di Mengs (e non ci stupisce invece, che con quel suo congelato segreto abbia turbato anche un iconoclasta come Breton, che consigliò ad Aragon un viaggio apposito per andarselo a vedere). Dall'altro estremo, quel festino già decadente e sinuoso, orgia di morti e di lussi sprecati, del Suicidio di Sardanapalo, presentato con grande scandalo da Delacroix al Salon del '27. Tra questi poli si spreca una generazione di allievi, di epigoni, di fervidi artisti minori in variopinto contrasto (quelli che con un poco di spregio Rosenthal ha chiamato del juste milieu): è quello che un altro critico malizioso ha chiamato «il neoclassicismo che perde la testa». In cui è soprattutto la pittura storica a dominare, con allusioni alla contemporaneità e il tentativo da parte dei Borboni di legittimarsi attraverso una propria epopea, evocando soprattutto il Re Buono, Enrico IV. Ma spesso la pittura epica si fa anche reportage, pittura di giornalismo, di cronaca contemporanea, semplicemente paludata in panni storici: come se si raccontas se oggi l'avvento di D'Alema e Pro di entro marsine risorgimentali. Le cosiddette scene della Monarchia di Luglio, risolte con un poco di svogliatezza ufficiale da Cogniet o Vernet: Luigi Filippo a Windsor o il Duca d'Orléans che scende tra il co- lera, come Carlo Borromeo. L'unico vero brivido, in fondo, lo spreca il «bardo» Isabey con una fosca visione dantesca del Trasbordo delle ceneri di Napoleone a bordo della Belle Poule («solo un uomo era in vita allora in Europa» tuonava Nietzsche, «mentre il resto degli esseri si riempiva i polmoni dell'aria che lui aveva respirato»). Un'impressionante machinerie funeraria, tra argani, sartie, aste alla Paolo Uccello e fumi sinistri. E quella Sarah Bernhardt sospesa nella bara simbolica, drappeggiata di veli scenografici, che rimane in equilibrio tra cielo e inferno. Che è un altro topos di questa pittura minuziosa e aneddotica, fin troppo opulenta di det¬ tagli e di «pettegolezzi» figurativi. Che oscilla tra il folklore meridional-caprese di banditi e gitani in stile insieme Carmen e Graziella di Lamartine e una mielosa pittura religiosa neo-raffaellesca. Tra le sequenze di protesta sociale (quella scena emblematica del reduce ridotto pezzente sul ponte, dove passano sprezzanti i borghesi, che vanno a votare all'Assemblea, simbolo di una rivoluzione abortita) e quelle di ripiego romanzesco: recupero trobadour del Medioevo. Sono gli anni in cui Donizetti trionfa a Parigi con un'Anna Balena subito doppiata in pittura (e allusioni alla prigionia della Duchessa de Berry da parte del «bonario» Luigi Filippo, quello delle seggioline per bene). Ma tutta questa pittura scenografica e magniloquente risente del melodramma: Maria Stuarda, Macbeth, Amleto, Giovanna d'Arco, accucciata in un angolo come un remissivo bovino visionario, mentre la «scena» è tenuta dal rosso primo piano della pantofola inquisitoria del Vescovo cattivo che la interroga. Anche se poi questa stessa pittura sa prendersi in giro: nello splendido Svenimento lirico al limite della caricatura di Boilly, una domenica gratuita al teatro d'opera, più costipata di un metrò all'ora di punta, tra dita nel naso, manomorte, risse melomani e deliqui bovaristi. Senza dimenticare i tanti paesaggi-stato d'animo (del rivoluzionario Rousseau, con le sue vacche che sembrano «scendere all'inferno») o di Millet ben più moderno di quanto la solita ironia del critico del Monde, che vede art pompier dappertutto, possa nemmeno sospettare. E poi - oltre la fantasia macabre, tra Verne e Berlioz, nei ghiacci fantascientifici del la Groenlandia di Biard - l'inevitabile sezione noir-romantic, alla Monk Lewis: abbazie scoperchiate, rovinismo, segrete e prigioni piranesiane. Perché come cantava de Musset: «L'astro dell'avvenire si solleva a fatica, non riesce a sfondare l'orizzonte. Che notte spessa sulla terra! E noi saremo morti quando sarà giorno». Che scandalo, quando Géricault presenta al Salon la sua cronaca d'attualità della Zattera naufragata e che resistenza, contro quel negro sfrontato che vola ignudo e senza gravità sul cielo geniale del bozzetto di Chassérieu, «che sapeva disegnare come Ingres ma s'impose la galera barbara di Delacroix». Lasciamo ancora la parola a Hugo: «11 reale si faceva giorno intorno a lui, gli urtava gli occhi, il cammino, demoliva brano a brano tutta la terribile poesia da cui un tempo s'era creduto attorniato». Ecco il Realismo che avanza, minaccioso. E se nel vero quadro romantico lo spettatore è come invitato a entrare, coinvolto nel sospendere il gesto criminale di Medea o fermare la mano del boia nel Massacro degli Innocenti, nell'emblematico Une après-diner à Ornans di Courbet, tra pipe stoppose, cani impigriti, e accidiosi grigi post-prandìali, chi guarda è come ricacciato ùidietro da quegli inospitali non-personaggi, che irrispettosamente gli voltano la schiena, ignorandolo. Marco Vallora Due opere di Ingres, uno dei protagonisti del Romanticismo: a lato «La grande odalisca», sotto il ritratto di «Mme de Senonnes» La mostra «Gli anni romantici», ora al Grand Palais di Parigi, verrà poi in Italia, a Piacenza «Ufficiale dei cacciatori», un'opera del 1812 di Théodore Géricault. A pochi passi dalla sua casa, a Montmartre, c'è ora il «Museo della vita romantica»