Parte già zoppo il negoziato per l'Ulster di F. Gal.

Parte già xoppo il negoziato per l'Ulster IRLANDA DEL NORD Major e Bruton aprono a Belfast un tavolo pieno d'insidie, i lealisti: no al dialogo con Adams Parte già xoppo il negoziato per l'Ulster Manca il Sinn Féin, Vira non vuole proclamare una nuova tregua LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Incomincia oggi, ma con le stampelle, il negoziato per il futuro dell'Ulster. Salvo clamorosi sviluppi dell'ultima ora, che non sono da escludere sebbene improbabili, partirà infatti senza quello che resta, convitato di pietra, uno dei suoi attori più essenziali, il Sinn Féin. Il braccio politico dell'Ira, sebbene emerso come quarta forza politica del Nordirlanda alle elezioni che il 30 maggio hanno dato un volto agli schieramenti negoziali, paga la cocciutaggine delle gerarchie repubblicane, che non hanno finora proclamato la nuova tregua militare indicata da Londra e da Dublino come condizione alla presenza del Sinn Féin. Ma se l'Ira si lasciasse convincere altri problemi insorgerebbero a Belfast quando alle 14 i primi ministri John Major e John Bruton apriranno i lavori nel palazzo di Stormont. Se i leader repubblicani accogliessero i pressanti inviti dei due governi, ma soprattutto dell'ex premier irlandese Albert Reynolds che funge da mediatore informale e che ieri sera ha avuto dal presidente del Sinn Féin Gerry Adams la promessa di un'altra intercessione presso l'Ira, sarebbe il turno dei lealisti a insorgere. Ancora ieri David Trimble, leader dell'Uup che è il maggiore schieramento protestante, ha ripetuto di non essere disposto a dialogare con il Sinn Féin: per lui è ancora da risolvere il problema delle armi dell'Ira. Ai lealisti non è mai andato giù il cedimento di Londra su quel punto, sulla linea - disarmo in parallelo con il negoziato - suggerita alcuni mesi fa dalla commissione presieduta dal senatore americano George Mitchell. Forse per questo Mitchell - chiamato a presiedere il negoziato - non piace alle delegazioni unioniste, soprattutto al Dup dell'inflessibile reverendo Ian Paisley, che lo considerano troppo legato alla politica americana caratterizzata da aperte simpatie per i repubblicani irlandesi e che in apertura dei lavori chiederanno a Major «altre soluzioni». «Tutti devono accettare qualche compromesso», dice Reynolds; e ieri sera, in un incontro con gli unionisti, Mitchell ha cercato di cancellare le ombre che lo accompagnano. Basterà? E basteranno le preghiere invocate dal cardinale Daly, primate dell'Irlanda, affinché anche l'Ira trovi un accomodamento interno? Perché il negoziato appare non solo con le stampelle, malproprio nato male. Doveva coinvolgere «tutte le parti interessate», invece - nonostante i dieci partiti (se si conta anche il Sinn Féin) che vi prendono parte - è un'antologia di riserve: quelle espresse dal sottosegretario britannico al Nordir- landa Michael Ancram, secondo cui una tregua temporanea dell'Ira non sarebbe sufficiente perché «non si può avere una tregua contingente o qualificata o in qualsiasi modo strumentale»; e quelle espresse dal negoziatore del Sinn Féin Martin McGuinness, il quale rifiutando di intercedere presso l'Ira ha insistito che è «dovere di John Major, più che di ogni altra persona, convincere l'Ira, perché è stato lui a sperperare le chance create dall'altra tregua». Dopo una guerriglia durata 25 anni, e che ha ucciso 3200 persone, Londra sa di giocare una delle sue ultime carte per la pace. Ma sia il «caso Mitchell», sia l'assenza del Sinn Féin, che fa dei moderati di John Hume e dell'Sdlp l'unica rappresentanza della minoranza cattolica men tre fra i lealisti figurano le due maggiori formazioni combattenti dell'estremismo protestante, non augurano bene. [f. gal.]