CARTESIO GENIO FEDE E PAVIDITÀ di Giorgio Calcagno

LA POESIA LA POESIA ELLA mia casa c'è il silenzio di chi urla». Con questa frase ossimorica (il silenzio urlante) si presenta Chiara Zocchi, anzi la protagonista del suo romanzo d'esordio, Olga. E già si capisce quanto sia sveglia questa bambina che consegna a una specie di diario i casi della sua famiglia e del vicinato, le riflessioni su se stessa e il mondo, quale le appare nel perimetro stretto in cui si trova a vivere. Le prove che subisce sarebbero dolorose e frustranti per chiunque. Il padre violento finisce in prigione, il fratello drogato marcio muore di Aids, la madre pensa per qualche tempo di portare in casa un altro uomo. Ma Olga sembra passare sostanzialmente indenne da queste esperienze. Sono gli spigoli più ruvidi di un universo incomprensibile in cui sembra capitata per caso. Ma in cui dovrà restare, ed è qui che, nel cammino ondivago dell'infanzia, lo stupo- di Umberto Piersanti UNA poesia prosciugata quella di Giampiero Neri, che conosce perfettamente lane della sottrazione, ma che mantiene, nonostante tutto, un forte afflato lirico. La sua raccolta, «Dallo stesso luogo», pubblicata da Coliseum, è un libro raro e prezioso: l'aspetto gnomico e quotidiano tipico di tanti autori della «linea lombarda», subisce come un dislocamento in un diverso terreno, in spazi solitari e vagamente metafisici. Si nota la presenza d'un bestiario preciso, scientificamente determinato, ma ricco di valenze metaforiche: il gufo reale, o Sminteo, distruttore di topi, la civetta nana, il Bubo, altro appartenente alla filosofica famiglia, il lavarello, nome lombardo d'un pesce dalla testa piccola. In questo scenario prealpino s'intravedono, ma per un attimo, anche le comparse umane, come Maria Signaroli caduta sul pavimento un mattino del '32 o '33 o il mago commensale diventato guardiano dello zoo nel dopoguerra. re lascia presagire il dolore, lo accoglie e lo filtra. Si badi a quelle frasi e parole in corsivo che galleggiano nel racconto di Olga. Sono frammenti di discorso, imprecazioni, esclamazioni: le parole degli altri. Qualche volta lei se ne appropria, rimasticandole nella bocca, più spesso le registra con fare straniato: i luoghi comuni, la futilità, la rabbia, la sofferenza taciuta o gridata. I suoi punti di riferimento sono la madre, ansiosa ma amorevole, il postino e il tabaccaio, due cuori semplici che le danno corda, il coetaneo Franco, che Olga adora. Anche se arriva a desiderare che diventi una bambina, così sarebbe meno stupido, non cambierebbe mai donna come fanno i grandi e lei potrebbe tranquillamente sposarlo. Un ragionamento in cui si coglie una coscienza precocissima, risvegliata dalla storia familiare, della condizione femminile. Chiara Zocchi ha 19 anni. Si distingue da tanti esordienti cattivissimi che sentono il bisogno di chiedere in prestito al cinema una sommaria estetica della crudeltà, scommettendo sull'«innocenza», sulla smorzatura del tono e delle situazioni. Non ha, vivaddio, l'ossessione della velocità. Non soffre di acne giovanilistica. Sa apprezzare le lente ambagi della letteratura, misurare il pacato srotolarsi dei pensieri e della lingua del suo personaggio. La sua trasgressione sta nel candore che, quando diventa estremo, finisce per sforare nella malizia dell'alieno, oscillare tra il sorriso e la crudeltà inconsapevole. Non lasciamoci sviare da certi tratti di angelismo sognoso, dall'infantilismo gergale (la malattia chiamata Aiz, l'apsoriasi), dalle sprezzature sintattiche. Non è un caso che i grandi si lascino andare a raccontare, a confidarsi davanti a lei con qualcosa di più della condiscendenza che si ha per chi non capisce. Perché i suoi occhi vedono tutto, e giudicano. Prendiamo la tv. Il telegiornale è «una cosa bruttissima, perché quando c'è succedono le disgrazie». Se non ci fosse «non succederebbe più niente di brutto e i ladri e gli assassini andrebbero in un altro Paese col telegiornale. Sì, perché loro, i deliquenti, vogliono andare a tutti i costi alla tv». Prendiamo la droga. «E' una malattia anche più brutta della vecchiaia... Perché ti fa vedere le cose che non esistono e solo alla fine ti dice che non esistevano. E tu intanto muori». Squilla il telefono e Olga si rifiuta di rispondere: «Non mi piace ascoltare la voce, senza vedere chi parla. Mi sembra una cosa a metà e per me le cose belle sono solo intere». Per sfuggire all'incessante rotolio nel passato o verso il futuro si inventa un presempre. In cortile, aspira «quasi tutto il profumo» dei fiori. «Dico quasi perché le cose non si possono mai avere tutte intere... E anche per le persone è così. Puoi averne soltanto dei pezzettini, perché ognuno, prima di essere di qualcun altro, è di se stesso». Qui Olga, nel suo piccolo, sociologizza e filosofeggia. Ma sa tratteggiare ritrattini incisivi e perfidi, inventare esilaranti va- CARTESIO, GENIO FEDE E PAVIDITÀ' VITA DI MONSIEUR DESCARTES Adrien Baillet Adelphi pp. 300 L. 30.000 VITA DI MONSIEUR DESCARTES Adrien Baillet Adelphi pp. 300 L. 30.000 ELLA primavera del 1617 un giovane cadetto francese di stanza a Breda, in Olanda, fu colpito da una piccola folla che si era raccolta attorno a un cartello affisso sulla strada. Poiché non conosceva il fiammingo chiese a un passante se avrebbe potuto tradurglielo in francese o in latino. E il passante, che era il matematico Isaac Beeckmann, luminare della scienza olandese, in latino glielo tradusse. Il cartello esponeva un problema di matematica, così arduo che neppure Beeckmann era riuscito a risolverlo. Il giorno dopo il cadetto tornò dal suo interlocutore, stupito che un uomo d'arme avesse simili interessi, e gli portò la soluzione. Beeckmann apprese che quel giovane, nato a La Haye, in Turenna, ventun anni prima, soldato a proprie spese sotto Maurizio di Nassau, si chiamava René Descartes. Ne nacque una amicizia ohe Cartesio avrebbe considerato decisiva nella sua vita. Il centenario cartesiano ha provocato tavole rotonde e celebrazioni un po' rituali, ma ci ha fatto anche qualche buon regalo: come la «Vita di monsieur Descartes» di Adrien Baillet uscita a Parigi nel 1691, e mai più apparsa in Italia dopo una infelice traduzione del 1713, dalla quale abbiamo tratto l'episodio di Breda (ora da Adelphi a cura di Lelia Pezzillo). E' una grande storia, di un uomo che si credeva non avesse storia, scritta dal suo più devoto, ma leale interprete, su testimonianze dirette. Nella sua prospettiva l'abate Baillet, uomo di biblioteca, futuro autore di «Vies de Saints», voleva erigere un monumento al personaggio, allievo dei gesuiti, per aver reinventato una filosofia a maggior gloria di Dio. E, in effetti, ritrae un Cartesio tutto virtuoso, devoto, attento a non travalicare mai, con le sue idee chiare e distinte, il confine fra ragione e fede. Ma, proprio perché non pensatore in proprio, coglie il filosofo nella realtà della sua vita, tutt'altro che povera di avvenimenti, rastremata nell'avventura del pensiero, come si crederebbe. riazioni sul «bacio con la lingua» o sul cappello dei carabinieri. E' capace di approntare una minima strategia difensiva, impostando un dialogo surreale con una signora petulante o una ritirata astuta davanti alla madre lagnosa: «Io mi sono messa le dita nel naso, così per sgridarmi cambiava discorso». Al di là di qualche artificio di troppo (si veda l'uscita finale della bambina dalle pagine del libro), di qualche sbavatura leziosa, Olga vive tutta di una freschezza ammiccante ma autentica, che è del sentimento prima che della scrittura (l'idea della malvagità come forma esasperata di tristezza, della bontà che è per sua natura inalterabile, onnicomprensiva). Di quell'andare avanti, in mezzo ai triboli suoi e degli altri, con una ardita scrollata di spalle, verso l'adolescenza e la maturità. Una bambina consegna, a una specie di diario le storie intime della sua famiglia e del vicinato e le riflessioni su se stessa e il mondo Lorenzo Mondo Finalmente ritradotta la biografia di Baillet del 1691: il quadro vivido di un filosofo carne e sangue Deventer, fine novembre 1633 A Padre Mersenne: (...) Ho saputo che l'anno scorso è stato pubblicato in Italia il Sistema del Mondo di Galileo [Il Dialogo sui Massimi Sistemi, ndr]. e ne ho fatta cercare una copia a Leyda e ad Amsterdam; mi hanno detto che era vero, ma che tutte le copie erano state bruciate a Roma e l'autore condannato. Questo mi ha talmente colpito che ero quasi sul punto di bruciare tutte le mie carte, o comunque di non farle vedere a nessuno. Non mi sembrava possibile che un italiano ben voluto dal papa come mi dicono sia Galileo, sia stato giudicato un criminale solo per aver dichiarato il moto della Terra (come avrà fatto di certo). So che questa teoria era stata condannata da alcuni Cardinali, ma credevo che non si insegnasse più in pubblico, anche a Roma; e confesso che se è falsa, allora lo sono anche i principi della mia filosofìa, poiché da essi il moto terrestre risulta assolutamente evidente. René Descartes Da «Ti scrivo, dunque sono» (Archinto, pp. 144, L. 24.000) In Baillet, Cartesio è uomo di carne e di sangue, ama i viaggi, va alla guerra, sa sguainare la spada contro i marinai che vorrebbero depredarlo sulla nave; vuole conoscere il mondo in tutti i suoi aspetti, prima di dedicarsi alla rifondazione della conoscenza. Anche se il biografo si trasforma, qua e là, in agiografo, vengono fuori le debolezze del personaggio: la mitica pigrizia, che lo portava a vivere metà della giornata in letto; la gelosia verso gli antagonisti, da Gassendi al giovane Pascal; la pavidità, presentata come ritrosia, che lo portava a dissimularsi, e in qualche caso ad arretrare nell'esposizione del proprio pensiero. Come quando Cartesio rinuncia a pubblicare il libro sul Mondo per avere appreso la condanna di Galileo; o quando la «immaterialità dell'anima», nel titolo delle sue «Meditazioni», diventa «immortalità», perché così hanno voluto i dottori di Parigi. Una differenza non da poco, anche per uno spirito cristiano come certamente Cartesio era. Il biografo è assai più sfumato - non elusivo -, quando accenna ai rapporti fra il filosofo e le donne. Da giovane, apprendiamo, René Descartes si era battuto a duello con un rivale in amore per madame de Rosay, e solo dopo aver avuto una figlia da una domestica aveva cercato di ritornare celibe. Secondo Baillet, nella seconda parte della sua esistenza Cartesio aveva sacrificato tutti gli affetti al pensiero. Ma neppure il biografo può ignorare il rapporto, non solo filosofico, con la vera donna della sua vita, la principessa Elisabetta del Palatinato, che caldamente glielo ricambiava. Anzi, proprio Baillet ci lascia intuire la gelosia che ebbe per Elisabetta la diciannovenne Cristina di Svezia, quando strappò Cartesio da Amsterdam per portarselo a Stoccolma: dove sarebbe morto dopo quattro mesi. Possiamo capire meglio queste pieghe dell'animo cartesiano e del complicato, ma trasparente rapporto con la principessa tedesca, dalle lettere che pubblica Rosellina Archinto sotto il titolo «Ti scrivo dunque sono», a cura di Roberta Lorenzetti. Sono stralci da un immenso epistolario, con tutti i cervelli pensanti del tempo e offrono una immagine per molti sorprendente del filosofo, umana, e vera. Le lettere a Elisabetta e da Elisabetta, imperniate, ufficialmente, su un confronto di idee, attente nel tono, caute nel lasciar scivolare le parole dei sentimenti, sono, in realtà, messaggi d'amore. Lo capi benissimo l'ambasciatore francese in Svezia, quando le trovò fra le carte più segrete del filosofo dopo la sua morte e le rispedì, in un plico riservatissimo, alla interessata; che, «per studiare Cartesio», aveva rinunciato al matrimonio, e dopo la sua morte sarebbe entrata in convento. Giorgio Calcagno