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E Quasi un funerale di Stato per il vecchio sindacalista E ROMA oggi la sua vecchia pipa è spenta per sempre: la pipa curva di un uomo diritto. Vado a piazza San Giovanni un'ora e mezzo prima che cominci il primo funerale della Seconda Repubblica, e mi mescolo a quel popolo, quella etnia che è la sinistra con i suoi simboli, ma anche con le sue magliette e le sue facce. Specialmente quelle dei vecchi comunisti romani, gente tosta con una criniera bianca e leonina, torace forte e collo corto, moltissimi ex partigiani. E vedo anche questo strabiliante striscione della «Cgil Bologna» bianco in campo azzurro, un pugno nell'occhio: i simboli di un'era sono travolti, e il restyling sa di fatto-in-casa, con certe bandiere dell'Ulivo che sembrano veramente etichette extravergini. Ma le rosse bandiere! Certo, eccole lì le rosse bandiere. E i bambini con i vecchi, le donne non più giovani che ieri erano ragazzine e piansero Berlinguer, perché questa piazza vide anche i funerali di quell'Enrico che ebbe saluti da capo di Stato, da pontifex maximus del popolo. Ma era il segretario-successore di Longo, successore di Togliatti, successore di Gramsci. Lama, che sta tranquillo e disciplinato nella sua bara guardata da quattro carabinieri in altissima uniforme con pennacchio rosso e blu (è la prima volta o ci sbagliamo?), ha avuto prima di sé per pari dignità Di Vittorio. E oggi si prepara a parlare Sergio Cofferati, elegante, serio, sobrio, in un completo che ci è sembrato marrone. La Pivetti un giorno indispettita chiese: ma perché dedicate sempre attenzione ai vestiti? Ecco perché: perché i vestiti sono segni e linguaggio. Sono lingua e pensiero. Eventualmente emozioni. Luciano Lama vestiva sempre in modo severo, ma sportivo: lo ricordiamo con parecchie camicie a scacchi scozzesi. Oggi lo accoglie il suo popolo, vestito da popolo di quella precisa etnia, con le sue difformi uniformi. Il sole scotta, si suda, è stato un errore venire in giacca e cravatta, ma sul palco di fronte a noi (che oscilliamo su un pericoloso palchetto di travi d'abete e tubolari) le autorità sono tutte tirate a lucido, persino troppo. Lama non era come Berlinguer un capo comunista, anche se era un capo ed era comunista. Era il capo di tutti, l'uomo che provvedeva ai lavoratori. Era capo anche di Cisl e Uil, in certo senso. E' lui che è morto, il capo dei lavoratori, non un capo di un partito. Prima di morire mi disse: «Cer- to, sono contento che la sinistra sia al governo, ma se posso lasciare un testamento, voglio dire: evitate le divisioni, tentate sempre la strada della mediazione fra gente civile, non affrontate mai un avversario come un nemico». Sapeva di morire. Aveva il femore rotto, mentre un tumore lo spegneva. Gli chiesi perché soltanto lui, fra i grandi della sinistra, non fosse andato a visitare gli Stati Uniti dopo la fine della guerra fredda: «Perché sono orgoglioso. E io non vado dove non sono invitato. Se i sindacati americani mi avessero invitato, sì, sarei corso anch'io a vedere l'America». Scioccamente gli chiesi che cosa avrebbe fatto se i sindacati lo avessero invitato ora. Ora, che sapeva di dover morire. Sorrise amaramente e con cortesia: «Nelle mie condizioni? Dove vuole che vada, amico mio. Dove vuole che vada, ormai». Gli dissi: auguri. Rispose: «Per me sono tardivi. Mi permetta di farli io attraverso la sua intervista agli italiani: auguri, auguri vivissimi per una stagione di democrazia e di benessere nella libertà». Poche settimane dopo morì. Ed ora Lama torna nella sua piazza San Giovanni in uno di quei tardi pomeriggi di un'estate ancora giovane. Una grande fotografia solarizzata con pipa, dietro il palco. Gli applausi, i sei vigili del fuoco neU'uniforme da lavoro che portano la bara, la grande corona di garofani rossi, quelli che un tempo si vendevano il Primo Maggio insieme alle copie dei giornali di sinistra in diffusione militante. Ecco, c'è aria di Primo Maggio, ma un funerale del Primo Maggio, la morte di un protagonista che era simbolo e simbolizzato, soggetto e oggetto, una delle grandi, l'ultima forse tra quelle militanti, figure storiche. Le luci dei fari accesi sotto il sole sono lanterne pallide, poi diventano accecanti con il procedere delle ombre. Ecco sedersi Ottaviano Del Turco, suo vecchio vice socialista. Mi torna in mente di quando chiesi a Lama se da partigiano avesse mai ammazzato qualcuno: «Non le rispondo», mi disse con un tono mesto e pudico. Arriva il vecchio Vittorio Foa, il grande libertario intelligente, Macaluso, Veltroni lungamente applaudito e poi Napolitano salutato da scrosci di battimani, e D'Alema che prende un'ovazione e Prodi anche lui applaudito. Ecco che il palco si riempie e assistiamo a questa novità: ci sono i presidenti di Camera e Senato (Scalfaro, che definirà Lama «un amico», è in arrivo), c'è il presidente del Consiglio, il vicepresidente, i ministri, ecco Maccanico, Enrico Micheli, Camiti che piange come un bambino ed è uno dei pochi straziati nell'anima, c'è il vecchio e forte partigiano Arrigo Boldrini, ci sono tutti e l'orchestra, o meglio il Cd diffuso per altoparlanti, lancia le note dell'Egmont di Beethoven (se hanno informato bene la nostra ignoranza), insomma si è formata la tribuna d'onore delle autorità. Ed è questo il fatto nuovo, che è anche U fatto sorprendente, stonato: il mondo ufficiale, le nuovissima nomenklatura è tutta qui, schierata in parata in un luogo e per un uomo che hanno sempre rappresentato l'opposizione sociale. Sì, d'accordo: è quella opposizione sociale che oggi è governo, è la sinistra al potere. Ma queste immagini ricordano altri governi «democratici» della storia del nostro strano secolo: la Repubblica di Spagna, il governo francese di Leon Blum e del fronte popolare, senza chiamare in causa gli sventurati ministeri di Salvador Allende o di Weimar. Si dirà: ma che c'entra, questa è un'altra storia. E infatti è un'altra storia, e la storia, se ha un insegnamento da dare, questo è proprio che la storia non si ripete affatto e che non ha nulla da insegnare. Ma è comunque un segno, un simbolo, un graffio sulla pellicola del secolo. Come i carabinieri in alta uniforme, come le hostess da convention dava-iti a Montecitorio per la festa della Repubblica. Il vecchio Luciano è nella possente bara di rovere che deve contenere quel suo corpo che fu così bello, elegante e ammirato il Gary Cooper del sindacato, lo chiamavano - e che era già diventato così minuto, minimo, triste. Ne esce di nuovo, affacciandosi alla memoria, la sua voce un po' ironica. Gli chiesi, ma non lo scrissi, se aveva paura di morire. Disse di no. Un no secco, preceduto da qualche secondo di riflessione. Convinto. Disse soltanto: «E' ora, e quando verrà il momento cercheremo di affrontarlo come si deve». Poi aggiunse: «E adesso sia gentile. Sono stanco e ho bisogno di riposare». Lo lasciai ed era già primavera. Adesso ci chiediamo quanti siano gli esseri umani su questa piazza: venti? cinquantamila? cento? Che senso ha? I discorsi proseguono, la commemorazione affronta i suoi rituali, le istituzioni, il governo, gli uomini in grisaglia, le facce nuove e le facce vecchie, sono tutti qui al primo funerale di Stato della nuova era. Si leva un volo di colombi, un alito di brezza di ponente incurva le bandiere che subito tornano stanche e ormai è il crepuscolo, l'ora della nostalgia. Paolo (Suzzanti Il pianto dirotto di Pierre Camiti L'ovazione a D'Alema e i lunghi applausi a Prodi e Veltroni La bara portata da sei pompieri con le note dell'Egmont di Beethoven Le condoglianze del presidente del Consiglio Romano Prodi alla vedova di Luciano Lama

Luoghi citati: America, Bologna, Roma, Spagna, Stati Uniti, Weimar