E all'alba del 5 giugno arriva il ribaltone

fra grandi giornalisti e principi neri Cronache dalla Roma monarchica fra grandi giornalisti e principi neri E all'alba del 5 giugno arriva il ribaltone Yfì ROMA I NA bizzosa sera dell'ottoI bre del 1956 giravo per I I Marsiglia, nella parte bassa se. I della città, quella che odora di pernod corretto con la salsedine, in compagnia di Matteo de Monte, giornalista del Messaggero. Andavamo in cerca d'un ristorantino famoso per la zuppa di cipolle. Come da sempre succede a Marsiglia in autunno, il buio arrivò di colpo e Matteo ed io capimmo d'esserci persi in un dedalo di vicoli e ce lo dicevamo a piena gola. Dall'oscurità dove arrancavamo, giunse una voce garbata: «Italiani? Posso aiutarvi?» e prima ancora che potessimo dire «grazie» il possessore di quella voce garbata entrò nel cono di luce d'un lampione. E ci apparve, come in un giuoco di lanterna magica, Umberto di Savoia. Inconfondibile nella sua altezza aristocratica, inguauiato in uno spolverino blu di gabardine, l'alta fronte, le gote un po' a pagnotta. E gli occhi: neri, indagatori, malinconici. «Maestà...», trasecolò Matteo, «Lei qui?». Visibilmente imbarazzato: «Quel posto che loro presumo vadano cercando è proprio voltato l'angolo, buona sera», disse il Re di Maggio. E sparì nel buio. «Scherza, ride, motteggia, parla di problemi cruciali, analizza con competenza l'articolo di Martin Moore sul Daily Telegraph, gli piace far merenda coi bimbi mutilati di guerra che ospita nella Manica Lunga, ma è come se ti parlasse da dietro un vetro. Il suo riserbo lo isola dal resto del mondo, riesce a rimanere solo in ogni circostanza», mi diceva di lui Luigi Barzini junior nella fatale estate del 1946. Gibò, allora, era vicedirettore del Tempo. Lui, «monarchico in odio ai comunisti», s'inorgogliva dell'amicizia di Umberto di Savoia. Insieme con Ugo d'Andrea e con Mario Missiroli, in quel tempo direttore del Messaggero, convinsero Angiolillo a schierarsi con la monarchia nel referendum. I giornali scrivevano che Casa Savoia riceveva un appannaggio «pagato in oro, di 32 milioni di lire annue, corrispondenti a 10 miliardi di carta». In verità l'assegno era di 11 rnilioni e 250 mila lire, pagato «in carta, con tutta la svalutazione». Poiché Umberto spendeva parecchio in beneficenza, fu costretto a pagarsi le spese elettorali con le offerte di ricchi amici, capofila Giannalisa Feltrinelli, la madre del tragico Giangiacomo. In compenso, Umberto n profuse a piene mani onorificenze. L'Unità scrisse che nel suo unico mese di regno, Umberto decorò 27 mila persone: «... nella grande confusione vennero nominati cavalieri perfino due bambini di nove e di dieci anni». Non più afflitti dal fantasma minuscolo ma ingombrante di Vittorio Emanuele, i monarchici si tuffarono in una campagna elettorale all'americana, spregiudicata, abile, tutta incentrata sul personaggio Umberto: bello, fattuale, onesto, «senza peccato». Dapprima scettico, alla fine di un mese di regno passato a tessere l'Italia, Umberto finì col convincersi che «la partita si giuocava alla pari». E questo era quello che temeva De Gasperi il quale, forse, in cuor suo era monarchico ma sapeva che se avesse vinto Umberto le sinistre avrebbero scatenato «la rivoluzione», come minacciava Mauro Scoccimarro. Ma la vittoria della Repubblica fu limpida ovvero ci furono brogli come subito sostennero i monarchici, ricorrendo perfino in Cassazione? Lo chiesi ad Andreotti, protagonista di quelle giornate davvero storiche, nel 1993, nel decennale della morte di Umberto. Fu limpida, mi disse Andreotti spiegandomi che erano affluiti al Viminale, con grande costernazione di Romita, ministro dell'Interno («un gentiluomo») prima i voti pro-monarchia «provenienti addirittura dal Nord» e solo all'ultimo momento quelli che sancirono il vantaggio della Repubblica. E infatti all'alba del 5 di giugno la situazione venne ribaltata dall'afflusso incalzante di centinaia di migliaia di voti repubblicani. Quando fu chiaro che sia pure di una incollatura aveva vinto la Repubblica, De Gasperi telefonò al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero. De Gasperi varcò il portone del Quirinale ad ore 10,30 del 5 di giugno, in compagnia d'un giovanissimo Andreotti, suo uomo-stampa. Mordicchiandosi le labbra sottili per fermare la tensione, e l'e¬ mozione, De Gasperi tirò fuori dalla sua nera cartella sformata alcuni fogli e scandi: «Maestà, lo spoglio ha portato alla constatazione di una considerevole maggioranza a favore della Repubblica. (Pausa). Non le nascondo che il primo ad esserne dolorosamente sorpreso sono io». Da quel signore che era, ricorda Andreotti, Umberto non volle neanche vedere i fogli fatali che De Gasperi gli porgeva. Disse soltanto, il re, che avrebbe atteso la proclamazione ufficiale a Roma. Nel frattempo si sarebbe preparato il trapasso dei poteri, senza scosse, e la sua par¬ tenza. Ma come mai e perché Umberto, il 7 di giugno, cambiò bruscamente atteggiamento? Perché lo aveva galvanizzato il ricorso in Cassazione presentato da Enzo Selvaggi. Forse, in cuor suo, si illudeva che la situazione sarebbe stata ribaltata? Non lo sapremo mai. Umberto s'era fatto ospitare in casa dell'amico ingegner Corrado Lignana ma andava a cena da Barzini. «Togliatti, invece, dormiva in via Gaeta numero 4. All'ambasciata sovietica», così mi disse Andreotti. I consiglieri cercavano affannosamente U re ma questi era sparito. Corsero voci che egli si fosse recato a Napoli per prendere il comando di reparti a lui fedeli. In pieno clima da guerra civile, col governo in seduta permanente, con le piazze sconvolte da moti anche mortali, giunse finalmente, la mattina del 13 di giugno, ad ore 7, una telefonata di Umberto a Falcone Lucifero. Il re aveva deciso di partire alla volta del Portogallo. «Non voglio un trono macchiato di sangue, non vo¬ glio provocare altri lutti», disse e fu irremovibile. Avrebbe lasciato il Quirinale alle 15 di quello stesso 13 di giugno. Quel giorno il cielo era fosco, Roma sembrava oppressa dalla callaccia, tuoni annunciavano un temporale. Era mezzodì quando feci una capatina in redazione. Non c'era nessuno. Stavo per andarmene quando trillò il telefono. Era Gibò. «Prendi una penna - mi disse secco Barzini -, e scrivi. E' il proclama del re che va in esilio. L'Ansa lo darà quando Sua Maestà sarà in volo per Lisbona. Portalo subito ad Angiolillo». Era un addio polemico, duro, pericoloso. Allorché Angiolillo lo lesse sbiancò. C'era una frase ch'egli giudicava, non a torto, «devastante»: «Improvvisamente in spregio alle leggi e al potere indipendente della magistratura, il governo ha compiuto un colpo di Stato, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza». Ma nel testo che l'Ansa diramò alla mezzanotte invece che «colpo di Stato», si leggeva «gesto rivoluzionario». Ancora una volta De Gasperi era riuscito a convincere Umberto n «ad operare per il bene della patria». Cinquant'anni sono passati ed il ricordo del vecchio cronista si ferma su quell'incontro fuggevole di Marsiglia. Quel signore, forse già malato, emanava da tutta la sua compita persona un senso tragico di malinconia. Di lì a qualche anno sarebbe morto di un male terribile. Solo. Umberto II, Re di Maggio, morì ad ore 15,35 del 18 di marzo del 1983, nella camera numero 809 del Kantonhospital di Ginevra. Aveva 79 anni, pesava 50 chili. Ad aiutarlo a morire fu un'anonima infermiera. I parenti se n'erano appena andati. Gli tenne la mano e lui morì fissando quel volto sconosciuto. Il vecchissimo eppur limpido Falcone Lucifero, eternamente ministro della Real Casa, mi dice con la sua voce antica che Umberto prima di spirare pronunciò una parola. Soltanto una: «Italia». Igor Man Umberto spendeva moltissimo in beneficenza, e non aveva denaro per la campagna referendaria L'ultimo comunicato del re parlava di «colpo di Stato»: ma per l'Ansa fu corretto in «gesto rivoluzionario»