Luciano guerriero rosso «Il mio mestiere è lottare»

Luciano, guerriero rosso «Il mio mestiere è lottare» Luciano, guerriero rosso «Il mio mestiere è lottare» LA STORIA DI UN LEADER CON i duri Camiti e Trentin, con i morbidi Storti e Benvenuto, Luciano Lama è stato l'immagine del sindacalismo trionfante negli Anni Settanta, il sindacalismo che nelle fabbriche rialzava la testa, dopo le scottanti sconfitte degli Anni Cinquanta e la paziente ricostruzione degli Anni Sessanta. Più comunista di Trentin, più politico di Camiti, più autorevole di Storti, più popolare di Benvenuto, è stato il dirigente sindacale in cui si è maggiormente rispecchiata la figura leggendaria di Giuseppe Di Vittorio, padre del sindacalismo comunista e classista, che insegnava ai cafoni a non togliersi il berretto davanti ai padroni. Se Di Vittorio fu un padre, Lama è stato uno zio. Misurava le parole, fra una tirata e l'altra della pipa che teneva sempre fra i denti. Nella Cgil fu il più vicino a Berlinguer. Ne sposò totalmente la linea dell'austerità, diventando il bersaglio di Autonomia operaia, in un drammatico comizio all'Università di Roma. Lama aveva sacrificato a Berlinguer la sua popolarità e il personale prestigio: era il 1977. Luciano Lama era nato a Gambettola (Forlì) nell'ottobre del 1921, da una famiglia di ceto piccolo borghese. Il padre era sottocapo nelle ferrovie, iscritto nel Partito popolare di don Sturzo, costretto a prendere la tessera fascista per continuare a lavorare. Il nonno materno era proprietario di due fornaci. Il giovane Lama studiò al liceo classico e nel 1939 si iscrisse alla facoltà di scienze sociali a Firenze. Aveva due fratelli minori, Lelio e Lamberto, e una sorellina, Luisa. Diventato ufficiale di fanteria, l'8 settembre lo sorprese in Romagna. Scelse di andare coi partigiani, diventando capo di Stato maggiore della 29a brigata Gap. Ma perdette il fratello Lelio, fuggito con lui in montagna, catturato e fucilato a Stia di Arezzo nell'aprile del 1944. Dopo la Liberazione, Lama entrò nel sindacato. Fulminea la carriera. Segretario della Camera del lavoro di Forlì, si racconta che nel 1947, a un congresso della Cgil, avendolo sentito parlare Giuseppe Di Vittorio gli disse: «Tu devi venire a Roma con me». Cooptato, con la carica di vice segretario dell' organizzazione, non lasciò più quelle stanze. Nel frattempo si era sposato con una forlivese, con la quale ebbe due figlie. I pochi anni che lo videro militare nella base dell'organizzazione, guidando le lotte contro gli agrari, riverberarono di lui un'immagine non in sintonia con quella forse stereotipata del grande mediatore: un duro invece, secondo i compagni dell'epoca, che riceveva gli industriali col mitra sul tavolo. Il 1958 fu un anno decisivo: eletto deputato per il pei di Togliatti nella circoscrizione di Bologna, diventò segretario della Fiom, la federazione metalmeccanici della Cgil. Erano finiti i tempi dei viaggi al Sud con Di Vittorio, quando i contadini gli baciavano le mani e lui si scandalizzava: «Non sono mica suo figlio». La gestione Lama alla Fiom coincide con il cambiamento di clima prodotto dal centrosinistra: le ore di sciopero toccano primati superati solo nell'autunno caldo. In risposta al riformismo, si mettono in piedi grandi vertenze contrattuali. Nel 1970 Lama sostituisce un dirigente storico come Agostino Novella alla segreteria generale. Siamo all'indomani della contestazione studentesca e dell'autunno caldo: la fabbrica è il cuore della sinistra. Si coltivava la grande illusione che la nuova società dovesse nascere nelle officine. Il sindacato - sulla via di una precaria unità - appariva la grande panacea dei mali italiani. Il dirigente più autorevole e popolare era sicuramente lui, Luciano Lama. «Il marxista più bello», per un giornale femminile. Alto, elegante, era considerato un tonibeur de feinmes. Ma conduceva una vita riservata, unici hobbies il calcio e la lirica. Tifava per la Juventus ed era fiero della voce baritonale. La svolta nel 1977. I successi elettorali del pei cambiano la silp. tuazione. In previsione di responsi sabilità di governo, Berlinguer lancia la politica dei sacrifici e chiede alla Cgil di l: aprire la strada. Lama è l'interprete più deciso della nuova linea. E ne paga il fio nello storico comizio del 19 febbraio. Il piazzale dell'università romana è teatro di una battaglia, che comincia con le derisioni degli indiani metropolitani: «L'ama chi non Lama», «I Lama stanno nel Tibet», «Vieni avanti, cretino». Quando sale sul palco, lo accolgono gli slogan degli autonomi: «In Cile i cani armati, in Italia i sindacati». Lama è eroico l'ino al grottesco: «Compagni studenti, non bisogna disperdere questa preziosa energia giovanile ma trasformarla in valore politico di rinnovamento». Il suo è il discorso di un comunista che crede nella superiorità del suo messaggio scriverà l'indomani Gaetano Scardocchia sul nostro giornale -, la lotta, l'organizzazione, la razionalità della storia. Ma scoppiano i pestaggi, grandinano i sassi: coraggioso, vero partigiano redivivo, Lama continua a parlare anche mentre .le ambulanze caricano i feriti: «Dovete studiare e istiuùvi perché l'Italia ha bisogno di tecnici e intellettuali». Vorrebbe uscire di scena dignitosamente, senza neppure accelerare il passo: due compagni lo sollevano di peso e lo portano in salvo prima che i più facinorosi lo raggiungano. Un anno più tardi, in pieno compromesso storico, Lama espoirà in un'intervista alla Stampa un severo programma: «Il sindacato cambi rotta su salari, orari, pensioni, scioperi». Dice: «Gli aumenti salariali ai padri hanno danneggiato i giovani che cercano lavoro». Le difficoltà proseguirono all'inizio degli Anni Ottanta: nell'82 si ridusse il grado di copertura della scala mobile, e Lama riuscì a far accettare l'intesa anche ai più riottosi nella Cgil. Non così nell'84: l'accordo di San Valentino non lo condivise. Accettò cosi la rottura con Cisl e Uil. Nel 1986, dopo quarant'anni di militanza e 16 di segreteria, Lama lascia la Cgil nell'Xl Congresso, in una fase di crisi. Ottiene che al suo posto vada l'incolore Pizzinato, non il brillante Trentin. Dopo il suo ultimo discorso, piomba a sedere il viso fra le mani per nascondere i singhiozzi. Negli ultimi 8 anni è stato tra i più convinti assertori del passaggio dal pei al pds. Senatore e sindaco di Amelia (nell'89 a capo di una giunta pci-psi-pri, dal '94 - e fino al 29 marzo scorso - guidando mia coalizione che comprendeva da Rifondazione ai Popolari), era diventato forse prematuramente un simbolo del passato. Lui che amava dire: «La lotta è il mio mestiere». Alberto Papuzzi Prese il timone da Di Vittorio Uomo delle riforme nel 77 divenne il bersaglio di autonomia operaia lp. si I comizio di Lama all'Università di Roma nel '77: il segretario venne portato via di peso per evitare che fosse aggredito In alto un comizio di Luciano Lama, quando era segretario generale della Cgil