JEAN DANIEL ALLA DERIVA FRA LE NAZIONI PERDUTE di Sergio Romano

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Alessandro Barbero ALLA mostra di Palazzo Grassi sui Greci in Occidente sono esposti fianco a fianco il Trono di Boston e il Trono Ludovisi, oggetto di una discussione critica ormai secolare: forse falso il primo, forse autentico l'altro, ma ormai chi può dirlo con certezza? La storia dell'arte è abituata da sempre a confrontarsi col problema dell'autenticità; meno ovvio, forse, è che il dilemma si ponga anche in letteratura. Anthony Grafton, in Falsari e critici. Creatività e finzione nella tradizione letteraria occidentale (Einaudi), svela l'impressionante quantità di falsi che si nascondono nelle biblioteche. Gli autori? Insospettabili, fra loro perfino Erasmo da Rotterdam. Ma l'autore suggerisce che la perenne inclinazione della nostra cultura alla produzione di falsi abbia giocato alla fin fine un ruolo positivo, costringendo i critici a munirsi di strumenti d'analisi via via più affilati; mentre gli stessi falsari sono sempre stati, a loro modo, fra i più squisiti conoscitori t interpreti del passato. a tutti palese come, nella gran ridda di idee e di interessi sulle istituzioni, al giudiziario spetti oggi la palma del potere più controverso. Da un lato gli è rivolta l'accusa di usurpare le prerogative del legislatore e del governo, dall'altra serpeggia il sospetto che tra le toghe si annidino i più insidiosi custodi dell'illegalità. Nella cittadella giudiziaria sembrano infatti convivere, facendosi la guerra, i cavalieri della legalità e i bucanieri della corruzione. Il Palazzo di vetro e il Porto delle nebbie appartengono da noi alla stessa topografia istituzionale. Il volume che ora Feltrinelli propone nella serie «Giustizia» s'interroga sul ruolo del giudice nel cambiamento delle società contemporanee, mettendo a confronto teorici (da Luigi Ferrajoli a Stefano Rodotà) e operatori del diritto (da Marcello Maddalena a Gian Carlo Caselli, da Gherardo Colombo a Gaetano Pecorella) e fornendo una serie di profili comparativi quanto mai illuminanti su Francia, Germania, Spagna e naturalmente Italia, con un'efficace sintesi conclusiva a firma di Edmondo Bruti Liberati. Il quadro fornito non può che confermare e potenziare la percezione di disagio che ogni osservatore del pianeta giustizia avverte, ma nella sostanza confuta il mito di un'usurpazione politica della magistratura per restituirci la realtà di un potere a lungo assediato e sulla difensiva, fortemente esposto ai rischi di asservimento e strumentalizzazione da parte del potere politico. Va infatti detto una volta per tutte che l'attivismo del potere giudiziario in molti sistemi politici contemporanei ha di norma poco o nulla a che vedere con un presunto giacobinismo dei giudici, è piuttosto conseguenza di ben più serie patologie del circuito decisionale: la corruzione sistemica e l'intreccio affaristico che portano all'occupazione patrimoniale dello Stato, la crescente fusione e confusione dei poteri legislativo ed esecutivo, la perdita di funzionalità delle opposizioni parlamentari, al punto che da «potere nullo», come lo voleva Montesquieu, il giudiziario è diventato, anche suo malgrado, uno straripante contropotere di controllo e di stimolo. La stessa giurisdizione penale ha cessato di essere indirizzata, come qui osserva Luigi Ferrajoli, ai soli cittadini per diventare funzione imprescindibile, e non solo supplementare, di garanzia nei confronti di molte attività pùbbliche in cui si annidano pericoli di illegalità, anzi di vera e propria «criminalità del potere». Proprio questo ruolo, complementare a quello della responsabilità politica degli organi parlamentari, costringe ormai a ripensare l'intera questione penale, restaurando da un lato la certezza del diritto nell'amministrazione, e riproponendo dall'altro il valore del garantismo. Ma quale garantismo? Qui le strade divergono e un indubbio pregio del volume consiste proprio nel presentare nella loro irriducibile alterità tutto un ventaglio di «filosofie» del processo penale, con conseguenti giudizi di idoneità dell'attuale codice di procedura penale. Impressionano, in particolare, le pagine di un magistrato come Caselli che, vissuto nell'emergenza giudiziaria, invoca il «diritto alla normalità»; e la testimonianza di Maddalena, con il suo richiamo al pro¬ cesso finalizzato all'«accertamento della verità» - una tesi che a molti suona vetusta ed inquisitoria, e a cui pure dovremmo tornare con animo disincantato e sereno. La denuncia dello spostamento del baricentro dei poteri a favore del giudiziario non è comunque un tema nuovo degli ultimi decenni. Al contrario, come documenta un classico della letteratura giuridica, Le gouvernement desjuges (1921) di Edouard Lambert, la questione era già intensamente discussa ai primi del secolo, quando in Europa si guardava all'esperienza americana del controllo di costituzionalità delle leggi ad opera delle Corti (e della Corte Suprema) come a una minaccia alla sovranità popolare e anche alla legislazione sociale. In quel dibattito, che vede delinearsi la contrapposizione frontale di governo dei custodi e democrazia plebiscitaria, ricorso agli esperti del due process of law e appello al popolo, la formula serve a stigmatizzare la congiura dei giudici a tutela di interessi di conservazione contro gli accordi corporativi del nascente Stato sociale. Non è forse casuale, però, che La magistratura nell'Europa degli Anni Ottanta, vista da Daumier in Spagna come in Francia come in Italia, l'attacco sferrato contro la magistratura da settori influenti della classe politica abbia avuto come motivazione, o pretesto, la stessa tesi dell'illegittimità del controllo giudiziario in nome di una superiore forma di Stato sociale e di Stato imprenditore, alla cui espansione anche i valori della legalità andavano sacrificati. Con le loro antiquate idee sulla certezza del diritto nell'amministrazione i giudici erano ormai apertamente considerati disturbatori da «normalizzare»; e lo sarebbero stati ancor più quando, in nome di una diversa ma complementare ideologia, si sarebbe trattato di riproporre la logica di un mercato senza regole costituzionali e limiti alla libertà d'impresa. JEAN DANIEL ALLA DERIVA FRA LE NAZIONI PERDUTE VIAGGIO AL TERMINE DELLA NAZIONE Jean Daniel Spiro/i pp. 300. L.30.000 VIAGGIO AL TERMINE DELLA NAZIONE Jean Daniel Spiro/i pp. 300. L.30.000 N giovane lascia l'Algeria, attraversa il Mediterraneo e sbarca per la prima volta nella sua «patria». La Francia gli appartiene da quando la Terza Repubblica, democratica e volteriana, ha concesso agli ebrei algerini la cittadinanza della «Grande Nazione». Il giovane è francese perché ha studiato con insegnanti che gli hanno trasmesso il sentimento della grandezza e della superiorità civile della nazione francese. E' ebreo, perché è cresciuto in una famiglia di antiche origini sefardite. E' algerino, perché la terra in cui è nato e i costumi della gente che vi abita fanno parte del suo paesaggio interiore. E' «di sinistra», perché crede nel progresso dell'umanità, nella redenzione degli umili e nella fratellanza dei popoli. E' questo il bagaglio con cui il giovane Jean Daniel si appresta ad attraversare buona parte del secolo e a diventare uno dei mag- jean Daniel fondatore e direttore di «Nouvel Observateur» gion giornalisti europei. Ed è questa la «musica di fondo» di un saggio in parte autobiografico, Viaggio al termine della nazione, che appare ora in Italia. I diversi ingredienti della personalità di Jean Daniel compongono un insieme armonioso e gli forniscono gli strumenti necessari per risolvere con serenità le grandi equazioni del secolo. E' facile, per un uomo di sinistra, prendere partito in una guerra fra le grandi democrazie e il nazismo. E' facile, per un ebreo, comprendere i sentimenti e le ambizioni di coloro che si battono per la creazione di uno Stato israeliano. E' facile, per un «algerino», comprendere le grandi battaglie per la decolonizzazione dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per molti anni, insomma, Daniel riesce a conciliare, senza traumi e stonature, il concetto di nazione, che egli ha «respirato» sui banchi della scuola francese, con gli ideali internazionalisti della sinistra democratica, il sionismo di Ben Gurion, il patriottismo algerino di Ben Bella, la rivolta antiamericana di Fidel Castro, la resistenza dei vietcong, il socialismo nazionale di Nehru, il carisma terzomondista di Nasser e N'Krumah. Il quadro è oscurato da qualche brutta macchia che turba ogni tanto i sonni della sinistra democratica: il terrorismo staliniano, i protocolli segreti fra Molotov e Ribbentrop dell'agosto 1939, il complotto dei camici bianchi, la repressione ungherese e cecoslovacca. Ma nel grande libro contabile del Progresso la somma dell'attivo sembra superare di molto quella del passivo. Alla domanda «Che cosa è la nazione per un intellettuale?» Jean Daniel può rispondere, con sereno compiacimento: «Quella di cui gli altri sono privati». Nel periodo in cui fu inviato speciale dell'Express e nella prima fase del Nouvel Observateur, di cui è fondatore e direttore, fu tra i giornalisti occidentali il principale interlocutore e confidente di tutti i maggiori leader del Terzo Mondo. Il libro non dice quando il dubbio si sia insinuato per la prima volta nella sua mente, ma non è difficile supporre che le prime delusioni risalgano agli Anni Settanta. L'Arcipelago Gulag di Solzenicyn, le stragi cambogiane di Poi Pot, le repressioni cimane di Fidel Castro, il tradimento della grande speranza algerina, l'aggressività israeliana, il regime oppressivo di Menghistu in Etiopia, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, la dissidenza nei Paesi dell'Est europeo, il fallimento della decolonizzazione in Africa e le guerre fratricide fra i decolonizzati (Iran contro Iraq, Vietnam contro Cambogia, Somalia contro Etiopia, Etiopia contro Eritrea, India contro Pakistan) rimettono in discussione il bagaglio intellettuale con cui il giovane Daniel era approdato in Francia prima della seconda guerra mondiale. Più tardi, alla fine degli Anni Ottanta, 10 spettacolo diventa ancora più sconcertante. La morte dell'impero sovietico ha generato nazionalismi feroci, pulizie etniche, intolleranze razziali, patriottismi tribali, fanatismo religioso. Neppure le nazioni democratiche, fondate sui grandi principi morali e intellettuali della rivoluzione francese, sono immuni da questi pericoli. Daniel s'interroga sulle ragioni del naufragio, sembra chiedersi continuamente perché l'umanità abbia preso la strada sbagliata e tradito le generose speranze del giovane ebreo algerino. Il libro è una lunga divagazione intellettuale, con molte parentesi autobiografiche, sulle ragioni per cui la nazione si trasforma in nazionalismo, la libertà diventa licenza di reprimere e uccidere, i sentimenti tribali e religiosi prevalgono sui principi della tolleranza democratica. Jean Daniel non ha rinunciato a sperare in una nazione senza nazionalismo. Ma ho la sensazione che degli avvenimenti a cui ha assistito porti con sé soprattutto la conciliazione franco-tedesca e 11 processo d'integrazione europea. Il mondo in cui aveva riposto le sue speranze lo ha deluso; l'Europa occidentale gli appare, nonostante tutto, una grande isola di tolleranza e moderazione in un pianeta sconvolto dai nazionalismi, un monastero della ragione sulla cima del monte Athos. Sergio Romano