TORINESI TOSTI FANNO ROMANZI di Bruno Quaranta

LA LETTURA LA LETTURA di Marcello Lippi STO leggendo // figlio del marinaio, di Egisto Malfatti. Sono un viareggino, perciò il mare suscita in me sentimenti sempre s pedali. Nel libro ritrovo tante cose vissute da giovane. Malfatti mi intriga anche perché è un artista ->ato a Viareggio. d è capace di descrivere le proprie esperienze marinare con stile gradevolissimo e ovviamente tecnico. Mi piace l'approccio del figlio d«l marinaio con le onde, con i primi suggestivi viaggi, con i silenzi pie ni di rumore, talvolta in compagnia della solitudine. E n.iel linguaggio tecnico si s copre via via qualcosa da imparare nell'arte di condurre un barca. IH TORINESI TOSTI FANNO ROMANZI Cinque esordi: viaggi e suspense ON fiamminghi, no. Ma tosti sì questi piemontesi, parola dell'Avvocato. E non solo sui campi di calcio, se Torino, dopo la Coppa Campioni, fa Yen plein con ben cinque esordienti. Cinque nomi che rinnovano, sulla scia dei Baricco, dei Culicchia e dei Voltolini, l'ipotesi che formulò una volta Grazia Cherchi parlando di Torino come di città-laboratorio. Due di loro, per la verità, appartengono alla razza degli isolati e sfuggono a qualsiasi catalogazione di gruppo. Sergio Astrologo, cinquantaseienne, è nato a L'Asinara ma risiede a Torino dove si dedica all'insegnamento e al giornalismo. D suo romanzo, Gli occhi colore del tempo, è un viaggio picaresco popolato di luoghi e di creature sfarfallanti, che rompono - come diceva Alpino - (de croste ufficiali». Quarantadue gli anni di Gianni Farinetti, nato in provincia, a Bra, ma residente a Torino da venticinque. Copywriter di mestiere, un trascorso romano da aiuto-regista, assistente, sceneggiatore. Un delitto fatto in casa nasco da una costola del duo Frutterò &• Lucentini ed è un giallo di costumi provinciali, in libreria tra una quindicina di giorni. Da Torino alla Costa Azzurra Farinetti disegna le silhouettes di una piccola commedia umana che ruota intorno al dominio familiare dell'ingegner Giulio Cesare Guarienti. L'azione si svolge in un periodo di soli cinque gioirni a cavallo di un Natale, ma vi accade di tutto: amori (uno omosessuale, delicato), unioni, separazioni, ritorni, crimini, sospetti, agnizioni in un'accorta regia di voci, di sguardi, eli fatti, che si rispecchiano nella caLibrata costruzione delle strutture narrative, nel gioco delle coincidenze e delle corrispondenze speculari. Più giovani gli altri tre esordienti. Trentadue anni per Giuliana Bertolo e Andrea De Marchi, venticinque per Alessandra Montrucchio. Giuliana Bertolo ha vinto il premio Mont Blanc romanzo giovane 1995 (lo stesso che nel '93 vinse Culicchia con Tutti giù per terra) e il suo romanzo, Una vasta distesa bianca, è uscito da Mondadori. Alessandra Montrucchio il Premio Calvino '95 con i racconti di Ondate di calore (Marsilio). Molto bello il titolo del romanzo di Andrea De Marchi, Sandrino e il canto celestiale di Robert Plant, uscito quasi contemporaneamente da Transeuropa (pp. 172, L. 20.000) e da Mondadori nella Piccola Biblioteca Oscar. Un titolo che sembrerebbe dettato dalla penna di Silvio D'Arzo, se i «maestri» non fossero altri. Vistosamente altri. I più giovani non fanno - nemmeno loro - né gruppo né tendenza ma si conoscono bene, vengono tutt'e tre (ci tengono a dirlo) da un seminario di scrittura tenuto da Baricco e Voltolini per l'associazione Sképsis e certo l'attenzione ai dati costruttivi dell'opera è la caratteristica che più li accomuna. Anche se poi le affinità finiscono lì. Abitare a Torino non è per loro che un fatto accidentale. Del resto De Marchi fa il pendolare da Cliivasso e Giuliana Bertolo passa ogni fine settimana al suo paese d'origine, Almese, vicino all'abbazia della Novalesa che certo l'ha ispirata più della Mole. Più prossimi in ogni caso De Marcili e la Montrucchio, soprattutto per ragioni di contenuto, dal momento che il loro mondo è immediatamente giovanile e fa generazione: il disorientamento degli Anni 80, il senso dell'essere postumi, in ritardo, di inseguire qualcosa che non è come appare, il cedimento a sogni che spesso si traducono in fughe spericolate. Nel romanzo di De Marchi, dove l'archetipo del viaggio attraversa il genere del diario e del romanzo epistolare (si tratta della storia di im giovane gay di 26 anni, Sandrino, che cerca di entrare faticosamente nell'«età matura»), è più evidente la vocazione mistilingue e sperimentale, con effetti di mimesi, di catalogo, di citazione, di parodia, che richiamano Arbasino e Tondelli. Nei racconti della Montrucchio la volontà sperimentale è meno marcata. Ma c'è. Soprattutto nel tentativo di tradurre in un linguaggio mentale o parlato i punti di vista dei vari personaggi, adolescenti o giovani disorientati (in cerca di un senso del vivere), oppure adulti che si muovono come funamboli grevi su un filo teso nel vuoto. Di misura più classicamente scarna ed essenziale la scrittura di Giuliana Bertolo, che nel suo romanzo trasforma un luogo d'asilo in un crocevia di storie. Durante un'improvvisa bufera il giovane Jacques trova riparo nel rifugio abitato da un uomo solido e solitario e da una donna cieca e misteriosa. Da questa storia che ne genera altre prende vita una narrazione di rivelazioni impossibili a cui solo la scrittura - nella sua attenzione lenticolare - può dare riscatto. Piemontesi tosti, dunque. Ma anche un po' fiamminghi. Giovanni Tesio Torino, via Viotti nel 1926 (archivio Chiambaretta) L'EBREO ERRANTE LUNGO IL PO GLI OCCHI COLORE DEL TEMPO Sergio Astrologo Marietti pp. 202 L. 26.000 TORINO COLORE DEL TEMPO Sergio Astrologo Marietti pp. 202 L. 26.000 ANTICHISSIMO spettro, come Roth chiamava l'ebreo, brinda alla vita in Gli occhi colore del tempo, premio Assisi 1995 sezione inediti. Una storia torinese e metafisica, metafisica perché torinese, il romanzo d'esordio che Sergio Astrologo covava fin dall'infanzia. Il cognome, diffusissimo nella comunità romana, non inganni: «Mio padre era milanese, un rappresentante, mia madre nacque qui, in riva al Po. Una donna di assoluta pigrizia, fra le figure ospitate da Natalia Ginzburg nel salotto cloroformizzato di Lessico familiare)). Astrologo, nella subalpina campana di vetro, identifica la parabola del nonno materno, Enrico Vitta. Sulla pagina, liberamente la sgomitola, optando per una lingua ai cinque sensi, colma di odori, di suoni, di sapori, tattile, scenografica. «Da piccolo, quando le paure salivano, cercavo rifugio nella mia cameretta, ritrovavo la calma fissando il ritratto dell'avventuroso signore che non avevo conosciuto». Fu il suo Salgari, il suo Sandokan, il suo praho, quel «monsù». Un'eco via via sempre più nitida, a mano a mano che il bambino cresceva, che trovava il sentiero per salire dalla natale Asmara alla Mole. Cinquantaseienne, laurea in scienze politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, già insegnante «nelle nostrane scuole medie di "guerra", dalla Falcherà a via Artom», già direttore di «Democrazia e socialismo», la rivista «che radunava l'ala migliorista del pei», insofferente di qualsivoglia camaleontismo, nemico di tutti gli Zelig, un figlio di Sara e di Abramo laico, epperò sensibilissimo alle fonti, alla nobiltà, alle patenti lì custodite. Un albero genealogico di cui Sergio Astrologo onora, coltiva, difende il ramo bastiancontrario Enrico Vitta. Torino, dal primo Novecento agli Anni Quaranta. Un mondo «dove il brutto spesso era il bello e il bello talvolta non sollecitava né l'anima, né il cuore né, tanto meno, faceva drizzare il muscolo dell'amore». La vicenda di un «selvaggio», renitente a ogni disciplina. Ricco, ricchissimo, con possedimenti da Rivoli a Moncalieri, da Settimo a Collegno. Incollato al velocipede. Votato alle femmine, lavandaie o dame di casino, dove goffamente debuttò vestito da Kippur, o fragoline (le fighe CARRERE : L'INCUBO DI UNA SETTIMANA LA SETTIMANA BIANCA Emmanuel Carrère Einaudi pp. 126 L. 18.000 PARIGI BIANCA Emmanuel Carrère Einaudi pp. 126 L. 18.000 N Francia ne sono già state vendute 120.000 mila copie. La critica d'oltralpe l'ha definito un capolavoro. Ha vinto un premio, il Fémina. Dodici Paesi hanno acquistato i diritti per la traduzione. Se ne prepara l'adattamento cinematografico. Con questo curriculum arriva nelle librerie italiane La settimana bianca di Emmanuel Carrère. «Più tardi, a lungo, fino a oggi...» sono le prime parole del romanzo di Carrère che ci tuffano in un'atmosfera inquietante. Per qualche pagina si cerca un punto d'orientamento e poi ci si aggrappa al destino del piccolo Nicolas. I suoi silenzi, i suoi incubi, le sue fantasie ci dicono che qualcosa incombe sulla sua vita. Lo scrittore ci aveva già imbrigliati in un clima d'attesa con Baffi (Theoria). In quel romanzo il protagonista viveva una discesa agli inferi alla disperata ricerca della propria identità, dopo aver avuto la malaugurata idea di tagliarsi i baffi. Come è nata la «Settimana bianca»? «Questo romanzo l'ho scritto di getto. Nel momento in cui ho comin¬ ciato conoscevo la fine e l'ultima frase. Di questa ero sicuro. Quindi sapevo dove sarei arrivato. Nel momento in cui ho trovato la prima frase, il resto è venuto da sé». Perché quel «Più tardi, a lungo, fino a oggi» è stata la chiave che ha fatto nascere il testo? «La combinazione delle tre formule mette il racconto in un tempo in¬ quietante e indefinibile. Anche se si narra un avvenimento passato, alla lettura lo si dimentica e si direbbe di vivere attimo per attimo il presente di Nicolas. Ma tutto questo è una giustificazione a posteriori». In un capitolo, all'improvviso, il lettore si trova proiettato vent'anni dopo, per poi ritornare a seguire il corso della vicenda. Un salto nel tempo che può lasciare perplessi, soprattutto perché resta una parentesi. «In questa storia si procede per cerchi concentrici: il padre, il figlio, il compagno di scuola del figlio... Con questo capitolo volevo puntare il dito su quest'ultimo. Ha capito fino in fondo la verità? Il suo gesto è deliberato o no? Io come autore non dò la risposta, ma mi limito a segnalare che quanto è successo ha rovinato anche lui. Ma anche questa spiegazione è un "a posteriori".. n » ri".. n ». Emmanuel Carrère con «La settimana bianca» ha vinto il premio Fémina e in Francia ha già venduto 120 mila copie Si direbbe che nutre un certo distacco per il suo romanzo. «Senza dubbio un libro non lo si vive con la stessa intimità di quando lo si sta scrivendo. Ma di questo devo dire che è il solo di cui sono assolutamente sicuro che valesse la pena di essere scritto, il cui contenuto va oltre la qualità letteraria. Non nego di essere presuntuoso. Ma se in un'altra situazione avrei paura di dimostrarlo e quindi cercherei di parlare con modestia del mio lavoro, per questo libro non sono capace di parlare modestamente. So di aver toccato la corda giusta». Cosa ha dato il la al romanzo? «Il punto di partenza è stato un fat¬ to di cronaca nera. Un particolare lasciato cadere senza importanza tra le righe ha reso ai miei occhi l'episodio doppiamente atroce. L'idea mi frullava nella testa da una decina d'anni, senza sapere come metterla sulla carta». Lei non si può definire uno scrittore prolifico se sono necessari dieci anni perché un'idea maturi. «Mi piacerebbe scrivere con regolarità perché penso che debba essere relativamente confortevole psicologicamente. Ma non è necessario un esercizio costante per essere scrittori. Grandi pianisti come Glenn Gould o Walter Gieseking suonavano solo quando dovevano registrare. Non sono così tanto presuntuoso ma ho bisogno di trovare validi esempi per giustificare la mia posizione di scrittore a singhiozzo!». Gabriella Gatto dei contadini che gli venivano offerte per ottenere un prestito o chiudere un occhio, o due, sui debiti) o moglie e fighe, tre, neanche un carattere in comune. Mai domo, mai aspirato nel tran tran borghese, Enrico Vitta, «non riconosciuto né dal suo ceto, né dai suoi correligionari», interprete di una sohtudme impavida, avvitato al dovere, lui ebreo errante, di cercare «le radici della vita là dove essa realmente scorre». I bordelli, certo, e le piole, e i mercati, e il fiume, e le celle pazze. Il «feuilleton» di Sergio Astrologo è una festa mobile, un caleidoscopio di visioni che allontanano dal qui e ora, che sospingono inesorabilmente verso un altrove, l'altrove. Gli occhi colore del tempo si inumidiscono, brillano, saettano ira e tenerezza di allegoria in allegoria, un fiotto di allegorie. «Sono le scintille, i simboli, le allusive immagini sprigionate - avverte l'autore - dal leitmotiv che scandisce il bizzarro destino: la coscienza dell'appartenenza e, insieme, l'impossibilità dell'appartenenza». E' l'angoscia e, insieme, la soavità dell'Attesa, la disfatta e l'apoteosi. Non a caso i due momenti vanno in scena a Torino, città dove «la vita in definitiva sta fuori dalle file», «patria degli esiliati», «una finzione, una città che non esiste», un pianeta estatico e fermo, come ben sapeva Casorati, un luogo, come non sfuggì a Pavese, dove può succedere di «aspettale qualcosa di grosso, l'Apocalissi». La speranza è testimoniata dalla strana, anarchica congrega (il prete spretato, il giocatore di biliardo, il professor Tuca, il bancarellaio Liner, d'indole ceronettiana, lo stesso Vitta) che vede le strade spostarsi «irresistibilmente verso Gerusalemme, obbedendo alla loro naturale disposizione che le spinge con forza irresistibile a congiungersi a quelle della città di Dio». La disfatta è rappresentata dal raggiro che soffoca il pur astuto Vitta. Artefice l'ingegner Katapan che gli fa credere di aver inventato il moto perpetuo, «una macchina collettrice simile nelle funzioni a Dio», mossa dal «soffio vitale». Disfatta o approssimazione alla Verità, alla Venuta? Magari Vitta sprofondò nella trappola di Katapan - intenerendo Dio - avendo negli orecchi i detti del mistico Schneur Zalman: «Tutte le cose create, e tutti gli esseri, devono considerarsi un nulla e niente assoluto rispetto alla forza di Colui che agisce e al soffio della sua bocca che è nell'oggetto dell'azione». Dio che si serve di un baro. Perché non potrebbe essere? Dio - come l'ebreo errante lesse da qualche parte - non esiste forse perché è assurdo? Negli occhi orientaleggianti, tartari, di Sergio Astrologo, scorre l'augurio o lo scherzo che suggella l'intrepido copione del nonno: «Lechaim», alla vita! Bruno Quaranta ■a