In coda fra le tribù di Israele

In coda fra le tribù di Israele IL GIORNO DELLA SCELTA In coda fra le tribù di Israele Ai seggi i segni esteriori della spaccatura STEL AVIV ULLO schermo televisivo che alle 10 di ieri sera ha mandato in onda le proiezioni con la notizia della vittoria (per ora presunta) di Shimon Peres si è schiantata la tensione che non si era potuta esprimere durante la giornata, e durante tutta la campagna elettorale. Una tensione grande come la posta in gioco, così passionale che non la si poteva esprimere a gocce, ma solo tutta quanta insieme. Il popolo di Peres, raccolto al Cinerama di Tel Aviv in attesa del capo, ha urlato di gioia; intanto, nell'immensa sala dove sedeva la gente del Likud, si spegneva almeno in parte il sogno, e sopravveniva il silenzio. La gente di Peres ha cantato, ha sventolato bandiere, la folla delle televisioni di tutto il mondo si è avventata sui leader laboristi. Poi, nella notte, la gente è andata in processione cantando: «Israele è forte con Peres», respirando l'aria marina di Tel Aviv. Intanto le feste più inaspettate e gioiose si svolgevano nelle sedi dei piccoli partiti: a Gerusalemme i religiosi di Shas hanno ballato in onore dei loro 9 seggi; i russi di Sharansky hanno bevuto e festeggiato una vittoria piena; i radicali del Meretz hanno cantato il loro inno, Shir la Stoloni. Il popolo del Likud ha seguitato a resistere a lungo alle cattive notizie, nonostante le facce innervosite dei leader; ha seguitato a discutere incredulo sui marciapiedi delle città, a inneggiare a Bibi primo ministro. Israele è rimasta elettrica, accesa tutta la notte. Come se finalmente si fosse liberata tutta la frenesia contenuta fino al giorno stesso delle elezioni. In lunghe code silenti, appaiono acquattati nell'attesa gli israeliani nelle ore che precedono il big-bang del risultato elettorale fatale, la scelta fra Peres e Netanyahu. Israele, sotto un sole caldo ma non crudele, sembra un grande, multiforme felino pronto al balzo; il puzzle della sua popolazione mescolata, con le carte d'identità in mano, in coda nei seggi nelle grandi scuole moderne di Tel Aviv, dove i ragazzi in maglietta e orecchino giocano in cortile a pallacanestro; o in quelle di pietra e rampicanti di Gerusalemme, non è mai apparso così separato. Non si vedeva più, ieri, la faticosa mescolanza conquistata da russi e yemeniti, polacchi ed etiopi, religiosi e laici, marocchini e americani fino a spezzare le divisioni culturali e di classe. Durante le elezioni di ieri riappariva la crepa sociale e antropologica: li vedi subito, chi vota Peres, chi vota Bibi. Chi accetta l'avventura del processo di pace, chi si può permettere il rischio; chi invece non vuole spendere la moneta della sicurezza per un bene che comunque non è mai stato co¬ nosciuto, ed è lontano. Un giovanotto gentile ed espansivo, gli occhi neri neri, di nome Jossi, di sicura origine nordafricana, che lavora nella sicurezza alla scuola Barilan, in un grande viale di Tel Aviv, dice che aspetterà in coda anche ore per un voto così im¬ portante: «Siamo qui per fare né più né meno che la rivoluzione». Si volta verso di lui un altro giovane che ha i capelli già un po' grigi, meno scuro, meno atletico, si chiama Emanuel, è un manager nel campo della Borsa: «La rivoluzione - gli risponde - l'abbiamo già fatta quat¬ tro anni fa, è già qui, perché non la vedi?». Un'anziana signora abbigliata all'europea, con i guanti, gli occhietti azzurri annuisce guardando Emanuel: «Pace, pace; non siete stufi, voi giovani? - chiede a Jossi -. Non abbiamo, non avete già sofferto abbastanza?». A Gerusalemme, nel quartiere di Mea Sherim, i religiosi, forti ormai della loro indicazione di voto per Bibi, vanno verso i seggi tirandosi dietro tribù di bambini; chissà se credono davvero che Netanyahu, che certo non ha nessuna patente di santità religiosa, possa restituire a Israele, come dicono, «un po' di ebraismo». Gli piace ripetere «Ason», cioè «disastro»: sarebbe un disastro se vincesse Peres, un disastro storico, escatologico, morale e politico e chi lo sa che altro mai. A Maale Dumim, un quartiere che è al limite estremo di Gerusalemme, un gruppetto palesemente religioso e del Likud, la kippah a uncinetto in testa e la camicia a scacchi, ride cordialmente di uno di loro che invece vota per Peres: «Lui soffre di questa perversione: gli piace votare per uno che prima o poi darà via la sua casa». Divisione, differenza: dopo quattro anni, eccole pronte ad esplodere subito il risultato del voto, a riproporre quel 50 a 50 che insidia da vicino la politica di pace sin dal suo inizio. I seggi arabi di Jaffa e nei villaggi del Nord in Alta Galilea hanno quell'aria pastorale che il mondo arabo acquista sempre all'improvviso nei momenti di non eccessiva tensione. Seicentocinquantamila arabi israeliani sanno benissimo quanto sia diventata improvvisamente importante per Peres la loro preferenza, e quanto Peres più del solito potrà, se vince, influenzare il loro futuro. Un loro seggio, a Jaffa, è invaso dalla troupe della tv giapponese che chiede a ogni donna col velo in testa, per favore, se non abbia per caso votato scheda bianca per il primo ministro. Ma no, non è così: un musulmano religioso con la barba nera e un golf ricamato tipo Missoni fa da portavoce a tutti i religiosi presenti nel seggio: hanno votato tutti per Darawshe al Parlamento, e per Peres come premier. Ci tengono al processo di pace, e anche se Peres non è migliore; certamente Bibi, però, è il peggiore. Verso sera le due sedi dei partiti, il Likud e il Labour, cominciano ad animarsi, la tensione diventa elettrica: il Likud ha un palazzone a pochi metri dal Dizengoff Center, l'ultimo teatro del terrorismo islamico. Adesso è pieno di gente. Silenzioso rimane solo, al primo piano, il Museo che parla di Gabotinskij, uno dei più antichi padri della patria d'Israele, uno dei più severi e anche violenti. Il partito di Peres, a pochi metri dal mare, è tutto ornato di festoni e di bandiere. Gli attivisti vanno e vengono, col passare delle ore compaiono i leader. Ma il popolo dei due partiti corre con le automobili verso i due grandi teatri affittati apposta per la vittoria in modo da sistemare gli altoparlanti, gli striscioni bianchi e azzurri, per distribuire lo sciame dei giornalisti televisivi e della carta stampata che si sono rovesciati a Tel Aviv. Di nuovo Israele fornisce al mondo il grande spettacolo della pace e della guerra. Israele è di nuovo, volente o nolente, il centro dell'attenzione del mondo con uno spettacolo oltremodo drammatico, a pochi mesi dall'assassinio di Ytzhak Rabin. Fiamma Nirenstein Una donna apostrofa un giovane: «Pace? Non ne siete stufi? Non vi è bastato?» Un colono armato di una mitraglietta Uzi depone la sua scheda nell'urna a Hebron, in Cisgiordania Bibi Netanyahu, il leader del Likud, si dice certo della vittoria