Aleppo, la prigione degli ebrei

Aleppo, la prigione degli ebrei La morte di una comunità nel romanzo di Silvera in corsa per lo Strega Aleppo, la prigione degli ebrei «Racconto il terrore nella Grande Siria di Assad» -JT] MILANO | | UANDO ad Aleppo arrivò I 1 la notizia che gli Alleati I I avevano vinto la guerra Y I toccò alla signora Marco- V poh, che era italiana, dare un gran ballo nella sua villa, e quella volta gli ebrei della città vennero invitati e trattati alla pari. Più di trent'anni dopo, a chi, come è capitato a chi scrive, viaggiando in Siria si fermava ad Aleppo, la signora Marcopoli apriva ancora la sua casa protetta dallo scudo consolare. Non si era dimenticata di quegli amici ebrei, che adesso stavano a Milano. Chiedeva: «Conoscete i Silvera? Conoscete gli Shammah?», e mostrava certe specchiere veneziane del Settecento, e certi lampadari di Murano, che erano stati di quelle famiglie, costrette a fuggire precipitosamente nel '48. A quell'epoca, ad Aleppo, agli ebrei era consentito ballare lo swing di Glenn Miller con i cristiani della buona società al Club D'Orient, proprio in faccia all'Hotel Baron, dove il servizio affidato agli armeni che parlavano molte lingue dava un'aria cosmopolita a un albergo modesto e aristocratico. «Ora dei 30 mila ebrei della Siria non ne sono rimasti che poche decine, e vivono malissimo, privati di ogni diritto. Il Baron è stato nazionalizzato, e nel suo giardino è stato costruito un supermercato», dice Miro Silvera, che aveva cinque anni quando lasciò Aleppo nel '47, poco prima che l'annuncio della spartizione della Palestina provocasse i disordini che portarono alla distruzione di molte case di ebrei, all'incendio della sinagoga Silvera e alla distruzione dei sacri rotoli della Toràh. Soltanto un anno prima la Francia si era ritirata da Siria e Libano concedendo l'indipendenza. «Ora invece arrivi all'aeroporto di Beirut e sei già circondato dai ritratti di Assad. Il suo sogno della Grande Siria s'è realizzato in un grande Stato di polizia». Per raccontare quella comunità ebraica che non esiste più Miro Silvera, poeta e narratore non meno milanese, ormai, della sua amica d'infanzia Andrée Ruth Shammah, ha scritto un libro involontariamente cruciale, in questi giorni sospesi fra le stragi degli hezbollah a Gerusalemme, le ritorsioni israeliane in Libano e le imminenti elezioni che decideranno il futuro del Medio Oriente. «Se va su Bibi Netanyahu, che è l'uomo forte della destra, sarà terribile, perché non vorrà restituire il Golan. E invece sono convinto che anche i siriani si rendano conto che una pace conviene a tutti. Mi chiedo solo perché al momento di fare lo Stato ebraico non sia stato scelto l'arabo come seconda lingua. Sarebbe stato un avvicinamento. Arabi e ebrei sono fratelli, hanno matrici comuni... sarebbe stato un inizio...». Il prigioniero di Aleppo di Miro Silvera è uno dei libri in corsa per il premio Strega, accanto a quelli di Barbero, Mozzi, Pera, Carbone, Veronesi, Mazzucco. Ed è la storia di un ragazzo milanese, ventisettenne, borghese agiato «di pasta inerme», mite, curioso e spaventato, che da Beirut dove è andato a visitare un nonno morente s'avventura con un passaporto falso fino ad Aleppo per incontrare un vecchio prozio e raccogliere il suo testamento orale: il ricordo di quella comunità ebraica un tempo così fiorente in Siria. «Ho messo insieme le storie che negli anni mi ero fatto raccontare da mio padre, e che avevo segnato su un quaderno. Certe ritornano: guardi, qui c'è la notizia di un ebreo di Aleppo di 76 anni che ha appena avuto il permesso di andar via, ed è partito per Israele in taxi, attraversando la Giordania, per riabbracciare i figli che non vedeva da trent'anni. Un mio zio fece lo stesso. Rimase in Siria dopo il '48 e rinunciò alla nazionalità italiana per conservare i suoi beni. Ma glieli portarono via lo stesso. E anche lui riuscì a scappare dal Paese in taxi, con una piccola borsa e due fighe». Molti di quelli che sono rimasti, racconta II prigioniero di Aleppo Zaki Shalam, sono stati portati via dalla polizia e dalla Sécurité Militaire, e non sempre sono tornati. Alcuni, accusati di essere spie israeliane, sono stati giustiziati; tutti hanno perso il diritto di praticare le libere professioni, avere il telefono, il conto in banca, frequentare l'università e vendere i propri beni. Il tempo in cui a Beirut l'Alfa Romeo nera targata Roma dell'ambasciatore Alessandrini incantava le signore che sognavano l'Europa, in cui ad Aleppo le donne incinte soddisfacevano le proprie voghe toccando il mosaico bizantino del giardino dei Silvera, e in tutta la regione gli ebrei istruiti usavano l'arabo per i pettegolezzi e il francese per le opinioni, è stato inghiottito dalla crudeltà della Storia con le luci e i colori della Beirut dove vivere era dolce. Oggi quel mondo sembra lontano e irreale come quello delle fiabe. Eppure la sera che Miro Silvera e Andrée Shammah lo hanno ricordato al Pierlombardo, il teatro era pieno. Livia Manera / tempi favolosi di viaggi, mondanità e balli all'Hotel Baron Si parlava in arabo per ipettegolezzi, e in francese per le opinioni Miro Silvera