«lo, in cella al posto di mio fratello» di Fabio Albanese
«lo, in cella al posto di mio fratello» Catania: è accusato di un omicidio che avrebbe commesso il congiunto «lo, in cella al posto di mio fratello» «Doveva scagionarmi, ma la mafia l'ha ucciso» IL SOSIA DEL KILLER SCATANIA I protesta innocente, vittima di un singolare scambio di persona. E nel frattempo ha passato sei anni in carcere con l'accusa di omicidio. Vincenzo Di Leo, pregiudicato ed ex apprendista elettricista, oggi ha 31 anni e dal carcere di Brucoli ha scritto al quotidiano locale che l'autore dell'omicidio per il quale è stato condannato a 24 anni non è lui ma suo fratello, che però è morto e non può raccontare come stanno realmente le cose. La lettera di Vincenzo Di Leo ha un prologo che era passato quasi inosservato nel gran calderone del processo «Orsa Maggiore» con, alla sbarra, 169 presunti componenti del clan Santapaola e con centinaia di episodi riscostruiti. Dieci giorni fa un pentito di rango della mafia catanese, il superkiller Maurizio Avola, ha raccontato ai giudici del processo, in quei giorni in trasferta a Rebibbia per motivi di sicurezza, la sua verità su una mortale rapina in gioielleria avvenuta il 16 settembre del 1986 in pieno centro a Catania: due rapinatori uccisero il giovane titolare del negozio, Giovanni Motta, 21 anni, che aveva reagito facendo scattare l'allarme. La verità di Avola, confermata anche da un altro pentito, Giuseppe Licciardello, è però ben differente da quella processuale che portò in galera proprio Vincenzo Di Leo. Secondo Avola e Licciardello, l'autore di quella rapina sarebbe stato Giuseppe Di Leo, all'epoca 26 anni, fratello di Vincenzo al quale assomigliava tantissimo. «Subito dopo il colpo la polizia imboccò la pista giusta - ha raccontato Avola ai giudici - e arrestò Giuseppe Di Leo. Vincenzo andò a trovarlo in questura per portargli delle vettovaglie e fu notato da una ragazza che ritenne di riconoscere in lui il bandito. Anzi, disse che il rapinatore le ricordava Ivan Cattaneo. Così Giuseppe tornò in libertà e Vincenzo finì in carcere». Avola spiega anche come mai Vincenzo Di Leo è rimasto in carcere sei anni per coprire Giuseppe: «I due fratelli si misero d'accordo di non rivelare nulla - ha detto Avola - e aspettare l'esito del processo. Se fosse andato male, Giuseppe avrebbe confessato facendo scarcerare Vincenzo», rimanendo comunque latitante. Le cose all'inizio andarono proprio così: Vincenzo Di Leo fu condannato a 24 anni di carcere. Ma il fratello Giuseppe non potè più scagionarlo, perché, nel frattempo, fu ucciso; una delle tante vittime della guerra di mafia della fine degli Anni Ottanta. Ieri Vincenzo Di Leo ha scritto ai giornali per confermare dal suo punto di vista la versione dei due pentiti: «Il mio torto è una grande rassomiglianza con il defunto scrive -. Questa somiglianza e la testimonianza incerta di una bambina che mi ha visto una frazione di secondo e mi ha accusato del delitto, hanno causato la mia condanna. Ho sempre gridato la mia innocenza. La stessa corte d'assise d'appello di Catania mi scagionò totalmente. Invece la Cassazione ha annullato l'assoluzione e dopo altri vari processi sono stato condannato». Di Leo aggiunge che l'uomo accusato con lui di aver compiuto la rapina, un operaio che all'epoca aveva ventisette anni, fu assolto perché fu accertato che quel giorno era lontano da Catania, «e io ero con lui», sostiene Di Leo, che poi conclude: «Adesso io chiedo: i collaboratori di giustizia sono credibili solo quando accusano e non quando scagionano qualcuno?». Per i magistrati, Maurizio Avola, ex uomo di fiducia del boss Nitto Santapaola, è uno dei pentiti più attendibili nella mafia catanese. Finora, però, nessuno ha riaperto il caso dell'omicidio Motta. Fabio Albanese
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