BELLOW Io e l'ltalia

americano: fra Dante e Svevo, Elsa Morante e Sciascia A colloquio con il Nobel americano: fra Dante e Svevo, Elsa Morante e Sciascia BELLOW b e Fltalia EBOSTON IEDE nella sua casa buia, con pochi mobili. Il pomeriggio è opprimente. Il maestro, mio vecchio amico ormai da 43 anni, è in abiti da campagna. Non è stato un anno buono per lui, perché a dicembre, come ama dire, ha dato un'occhiata al di là della soglia del mondo contiguo e tanto spaventosa è stata la scoperta quanto lenta la guarigione. Per reciproca deferenza abbiamo continuato a rinviare il libro che dobbiamo fare insieme, sui luoghi e le genti che entrambi abbiamo conosciuto. Perché il suo modo di vedere è sempre molto interessante e in più lui mette le cose in una lingua americana che potrebbe legittimamente vantarsi di aver inventato. Cosicché questa piccola conversazione sull'Italia e gli scrittori italiani, per i quali abbiamo da tempo un comune affetto, è un po' come rompere il ghiaccio su quel progetto. Naturalmente, come per qualunque scrittore americano della nostra generazione, nella sua mente l'Italia incomincia con il latino e i romani; poi, come dice lui, con le letture all'Università. «Benvenuto Cellini, Pirandello, Verga nelle traduzù ini di D. H. Lawrence. Avevo un caro amico allora, Paolo Milano, che aveva lavorato con Pirandello e aveva fatto questo e quello; e ovviamente, da bravo studente radicale, avevo il mio punto di vista di sinistra sulla storia italiana; sapevo tutto di Mussolini, dei poveri socialisti, di Matteotti. E ovviamente tutti conoscevamo Silone: Fontamora e Pane e vino erano libri importanti per la mia generazione. E poi leggevamo Svevo, per via dei suoi collegamenti con Joyce. «Io non ero particolarmente interessato alla letteratura italiana. Ero interessato a tutta la letteratura. Se leggevamo i classici italiani, era perché facevano parte della nostra educazione. Dante era l'Inferno. Non arrivammo mai al Purgatorio né al Paradiso. Quanto a Manzoni, si poteva dire che avevo intensamente sentito parlare di lui. «Nessuno ci aveva fatto conoscere una cosa chiamata "cultura italiana". Leggevamo furiosamente, tenacemente, dapprima indiscriminatamente; ci volle del tempo per uscire dal "ciarpame" dell'epoca. Nel processo di auto-educazione si comincia con ogni genere di prodotti. Leggemmo l'autobiografia di Da Ponte, che è meravigliosa - come l'idea che avesse una drogheria a New York. Casanova per noi era tanto francese quanto italiano». C'erano, ricordo a Bellow, gli scrittori inglesi e americani per i quali l'Italia era lo sfondo dei loro racconti. Gli italiani, ahimè, non li leggono: da William Dean Howells a Lawrence. Lui si stringe nelle spalle: «Che posso dirti! E c'era Henry James». James, dico, va in estasi nella campagna toscana, ma quando vide degli italiani nel New England rabbrividì. Sotto questo aspetto era un autentico americano: antipatia, paura, un senso di pericolo. Nel loro territorio li amava: ma quando vedeva le stesse persone a Boston o a Rhode Island, provava un profondo fastidio. Bellow è giunto in Italia la prima volta dopo la guerra, nel 1948. Con una borsa di studio Guggenheim. A quei tempi cinquemila dollari per un anno erano un patrimonio: si era appena sistemato a Parigi che filò in Italia: con qualche lettera di presentazione di Paolo Milano. «Stavo in una pensione vicino a Villa Borghese, con muri color ocra. Andavo alla ventura e conobbi casualmente Moravia e Elsa Morante. Conobbi Tucci, che era famoso per aver rotto con il regime fascista. Lavorava al consolato e si dichiarava comunista. Lo vedevo sempre, e sempre vedevo Moravia. E Elsa, che adoravo: la consideravo una donna meravigliosa e una grande scrittrice. Era molto amichevole, e così immediatamente umana. Con Moravia si dovevano passare ogni sorta di esami e alla fine lui ti dava solo l'impressione di averli passati. In realtà ti aveva bocciato. «Mi piaceva Silone. Mi piacevano i suoi scritti e il suo modo di fare. Mi piaceva anche Carlo Levi. Mi era piaciuto prima ancora di aver sentito una sua parola. Cenammo insieme qualche volta. Era la celebrità del ristorante ed era assai affettato. I francesi sono noti per la loro riservatezza e la ritrosia a stringere amicizia finché non vi conoscono molto bene, e anche allora su una sorta di base verbale. Ma con gli italiani c'è anche una base gestuale. Gli italiani sono scherzosi, non solo nel linguaggio. Raymond Queneau sigillava quelle sue labbra sottili in attesa di dire qualcosa; ma non vi avrebbe intrattenuto, a meno che non avesse avuto qualcosa da dire. Un uomo come Levi invece era una sorta di radio, e sorrideva radioso in ogni direzione». Osservo che l'umorismo, o la sua mancanza, è uno dei grandi difetti della letteratura italiana. Grandi vignettisti e caricaturisti, ma in qualche modo la letteratura li ha avvinti. Lui mi fa notare quanto spesso Svevo fosse divertente: certo, lo era, ma era ebreo e triestino. «Credo che Moravia sia l'uomo più lugubre che abbia mai conosciuto. Esprimeva la fine della storia, tutto il ciarpame nietzschiano avrei detto, ma non si trattava neppure di quello. Eppure aveva un acuto senso dell'umorismo. Qualche volta passava repentinamente dalla noia e dalla depressione a un umorismo selvaggio e faceva il pagliaccio. Più tardi a Roma incontrai Mario Praz, circondato da ogni sorta di esoterismi. Mi indicò a gesti il posto dove dovevo sedermi e poi mi chiese: lei sa su che cosa è seduto? Risposi di no. Lui disse allora: il bidet dell'imperatrice Josephine. Aveva una decorazione di pecore. A Milano incontrai Elio Vittorini, che mi piacque molto. «Mi godevo tutta quella compagnia letteraria. Negli Stati Uniti gli scrittori non erano così accessibili: dovevi andare in pellegrinaggio. Se volevi incontrare un Faulkner, dovevi andare a Oxford, Mississippi: dove c'era una possibilità, ma soltanto una vaga possibilità, che fosse disponibile a vederti; ma se anche ti avesse visto, non avrebbe parlato molto. Era introverso. Gli italiani avevano un forte interesse per gli americani: avevano divinizzato Hemingway e fino a un certo punto anche Faulkner. E avevano assolutamente ragione, perché erano persone originalissime. Per me tutta l'Italia era straordinariamente affascinante. Ero arrivato in un posto dove gli scrittori si incontravano ogni giorno nei caffè, a Milano in Galleria. Ero al settimo cielo. Non avevano letto nulla di me. Erano amichevoli per principio. Perché anch'io ero uno scrittore». Quelli erano i giorni in cui l'Italia era ancora povera e guariva dalla guerra, cercando di venire a patti con 0 fascismo e i partigiani. Più o meno nello stesso periodo avevo incontrato Pavese nella sua stanza d'albergo e avevamo passeggiato lungo il fiume dove il mio nonno piemontese corteggiava mia nonna leggendole l'ultimo Victor Hugo. «Bill Arrowsmith mi aveva parlato molto di Pavese, ma non sono mai andato a Torino. Janis e io stavamo per andarci quando sentimmo che Primo Levi si era ucciso e cancellammo il viaggio. Era uno scrittore così straordinario». Arrowsmith è l'unico vero traduttore di Pavese. Se scrittori e editori italiani leggessero la critica di Bill al Pavese di William Weaver, che non è peggiore delle altre sue traduzioni, sarebbero forse meno affascinati da lui. «Sai, la sinistra italiana non mi ha mai impressionato molto. Ho chiuso con tutto questo negli Stati Uniti. Conoscevo la storia della rivoluzione russa meglio di Sartre: era ovvio. Lui non ne sapeva nulla. Erano tutti mistificatori, ipocriti; non sapevano nulla di nulla. Ma poi presi l'abitudine di andare a Villa Serbelloni, sul Lago di Como, dai Feltrinelli. Prima avrei passato un po' di tempo a Milano. Con Giangiacomo Feltrinelli. Mi piaceva: era un tale pazzoide, così serio e così sciocco al tempo stesso, un angelico entusiasta radicale che scimmiottava Castro, indossando abiti da battaglia. Mi aspettò all'aeroporto circondato da un nugolo di belle ragazze. Andai con lui alla prima della Dolce vita. E con Inge. Ebbero un litigio spaventoso, lui e Inge. Per fortuna non capivo abbastanza bene l'italiano. Lei si lamentava di lui e di tutte le donne con le quali faceva comunella. C'era Anita Ekberg. C'erano tutti. Tutta quella gente affascinante così gentile con me. Ero a bocca aperta. Ma non rimorchiai nessuno. Sono sempre stato sessualmente raggelato dal fascino intenso. Per esempio, ho conosciuto piuttosto bene Marilyn Monroe ma non mi è mai passato per la mente di corteggiarla: mi avrebbe gelato. Ho un'adorazione infantile per tutte le stelle del cinema. ((Amavo Villa Serbelloni ma i Feltrinelli non mi lasciavano mai tranquillo. Venivano a cercarmi e mi trascinavano a qualche party. Ero incantato da Giangiacomo. Dava tempestose lezioni di marxismo, e io gli dicevo: ma quando mai Marx ha detto questo? E lui: è troppo tardi per Marx, dobbiamo passare subito all'azione. Diceva: so che Marx approverebbe quello che dico. Mi trattava da pedante. Il poveretto esplose in mille pezzi - recitava eternamente il terrorista o il radicale - e se fosse riuscito a far saltare quella linea elettrica, avrebbe danneggiato le sue stesse fabbriche. «Incontrai Calvino più tardi, attraverso Paolo. Mi piacque subito. Lo trovavo un uomo molto affascinante e uno scrittore delicato. Non so perché abbia poi imboccato quel vicolo cieco. Mi piacevano II barone rampante e le prime opere, ma avevo poco tempo per le cose sperimentali. Ci sono in giro malattie di ogni genere alle quali gli scrittori sono esposti e quando parte una tendenza, soltanto i più indipendenti ne sono immuni. Questo capita non solo agli italiani, anche agli altri, ai cèchi e ai francesi, completamente esposti all'influenza delle mode intellettuali. E calando vennero privati del marxismo si attaccarono a quell'altra roba, il genere Borges. Ne fui molto deluso e i libri di Calvino cominciarono a scadere. La sua conversazione era del genere conviviale; recitava il ruolo dello scherzoso. L'atmosfera a casa sua era eccellente; sua moglie era una donna simpatica e a me piaceva stare da loro». Gli dico: adesso non ci vai più molto. Mi risponde che non ci va perché andarci lo rattrista; tutte le persone che ha conosciuto bene se ne sono andate. «L'ultima volta che vidi Elsa Morante fu quando Paolo mi portò a un caffè e per strada incrociammo una signora anziana a un tavolo, un ampio cappello a tesa calcato in testa e intorno una corte di giovani amici tutti maschi. Era molto contenta di vedermi, chiacchierammo, ma io non riuscivo a ricordarmi chi fosse. Sul marciapiede chiesi: chi è? Mi rispose: è Elsa Morante. E io scoppiai ui lacrime. Cominciai a piangere. Vedere quella distruzione. Era sempre così gentile con me, una delle cose che mi disse al caffè è stata: quando ti sento attaccare a qualche party romano, ti difendo sempre». Attaccare: perché? «Lo sa Iddio. Ero troppo imbarazzato per chiederglielo». Ma anche lo scenario è cambiato. Entrambi amiamo Sciascia; a nessuno dei due invece piace Umberto Eco. «Mi dà fastidio leggere Eco: mi sembra esageratamente pretenzioso. Ma come ben sai, in un Paese che va pazzo per i cruciverba criptici, come l'America, era destinato ad avere un grande successo. Gli americani vanno in Europa in cerca di ogni genere di sollievo. Gli ebrei americani ci vanno con un comportamento ancestrale nella mente, e si sentono molto vicini agli italiani e agli spagnoli. Assai più che ai francesi. Hai l'impressione che questi italiani siano parenti. E' come stare tutto il tempo tra cugini. Ne ricavi una sorta di gratificazione che lì non c'è più, nemmeno nella vita ebraica americana. L'America ora è il mio Paese straniero». Keith Botsford «Feltrinelli mi dava lezioni di marxismo E io: ma quando mai Marx ha detto ciò?» «Moravia? La persona più lugubre che abbia conosciuto» «Mi sono piaciuti Silone e il primo Calvino. Eco no» il Nobel uto» americano: fra Dante e SvevoBELb e Flgessero la criWilliam Weadelle altre suro forse men«Sai, la sinha mai impchiuso con tUniti. Conosvoluzione ruera ovvio. Lu