«Nelle carte di Brusca il patto coi nuovi boss» di Giovanni Bianconi

Il segretario Cgil «Qui Cosa Nostra ha perduto la neutralità dei cittadini» «Nelle carte di Brusca il patto coi nuovi boss» I DOCUMENTI PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Adesso, spedito in un super-carcere il «latitante più sanguinario» (e la madre, ieri ha denunciato che i suoi figli sono stati picchiati), i riflettori si spostano sulla mafia agrigentina, quella che certamente ha aiutato e protetto Giovanni Brusca nella sua latitanza a un tiro di schioppo dalla Valle dei Templi. «Un'organizzazione - scrivono i magistrati dell'Antimafia - dedita alla consumazione di gravi fatti di sangue, reati contro il patrimonio, traffico di stupefacenti, nonché al controllo degli appalti, connotata da estrema pericolosità e capacità d'intimidazione, con un elevato grado di penetrazione nei gangli vitali delle istituzioni». Uno dei capi - secondo le ultime informazioni raccolte - è Salvatore Di Ganci, chiamato u sicarru (il sigaro), latitante, 54 anni, originario della provincia di Palermo ma boss incontrastato della zona di Sciacca, sulla costa agrigentina, considerato il «luogotenente» dei corleonesi nella sua provincia. Proprio con u sicarru, Giovanni Brusca faceva affari. Ai magistrati l'ha spiegato Santino Di Matteo, il pentito che collaborò con Brusca nella strage di Ca- paci e al quale lo stesso Brusca ha strangolato il figlio. «Ogni qual volta Di Ganci incontrava il Brusca ha detto il pentito -, i due si chiudevano in una stanza e parlavano dei loro comuni interessi. Io non ho mai assistito a queste conversazioni, ma so per certo che Giovanni Brusca coltivava molti interessi nel settore degli appalti, e per la gestione degli stessi si muoveva molto anche nella provincia di Agrigento. Bitengo dunque che i due parlassero proprio di tali argomenti... Di Ganci era molto vicino a Biina Salvatore, e quando voleva inviargli dei messaggi utilizzava Brusca Giovanni... Ho potuto personalmente constatare che Di Ganci si interessava molto di armi; io stesso ho visto Agrigento Giuseppe (altro uomo d'onore, ndr) e Brusca consegnargli armi "sporche", cioè già usate per commettere delitti, per cambiarle con armi diverse che si procurava nel territorio di sua pertinenza... Pur non conoscendo gli altri coassociati del Di Ganci, il Brusca mi diceva che quella di Sciacca era una buona "famiglia", e che Sciacca "fa mandamento"». Sugli affari in comune tra Di Ganci e Brusca, gli investigatori hanno raccolto anche numerose .intercettazioni telefoniche e ambientali. In un colloquio di tre anni e mezzo fa tra u sicarru e altri presunti uomini d'onore al quale era presente anche Brusca, ad esempio, si parla di «chiarimenti in ordine alle distribuzioni di grosse quote di denaro che si percepisce chiaramente essere il provento di estorsioni». Altri discorsi carpiti a Di Ganci e ai suoi «soldati» di Sciacca come Ignazio Ambia detto «Ezio» e Accursio Dimino chiamato Mattiseddu, testimoniano l'inserimento di Di Ganci dentro Cosa nostra, la sua fermezza nel decidere vendette e omicidi, e i suoi contatti con i corleonesi. Alla fine di giugno del 1992 - quando dopo la strage di Capaci il governo stava mettendo a punto le nuove leggi antimafia, con il rilancio del ruolo dei pentiti - in un dialogo poco comprensibile fra Di Ganci e alcuni «picciotti» si sente il boss di Sciacca che esclama: «E' un periodo tragico e pericoloso per le cose nostre». E pochi mesi più tardi, i «soldati» di Di Ganci vengono sorpresi a discutere dei danni che stanno facendo i «collaboratori di giustizia», finché Accursio Dimino dice: «Lo sai perché hanno tutto questo potere? Perché non hanno ancora ammazzato nessuno, là dove sono... Perché se avessero ammazzato qualcuno di questi, là dove sono nascosti, stai sicuro che ci avrebbero pensato assai più di una volta». Nella mafia agrigentùia, Di Ganci deve fare i conti con la cosca di Ribera guidata da Simone Capizzi detto «Peppe», un gruppo che pure è leI gato ai corleonesi tramite Emanue¬ le Brusca, fratello di Giovanni, chiamato «il dottore» perché ha studiato un po' di medicina e anche lui detenuto. Per contrastare i mafiosi di Ribera, Di Ganci non esita a progettare omicidi, e in un colloquio di inizio '93, alla vigilia dell'arresto di Riina, si sentono questi discorsi sui fratelli Giuseppe e Francesco Lombardo, palermitani trapiantati a Sciacca: «Noialtri dobbiamo stare attenti... la "stidda" di questo Lombardo... questo è in mano di Peppe Capizzi... Lombardo se ne dovrebbe andare... Prepariamo immediatamente questo omicidio di Lombardo. Tutti e due, a distanza di 15 giorni... Domani stesso noi provvediamo e facciamo uno e l'altro». Passano pochi giorni e viene arrestato Totò Riina, in seguito al penti mento di Balduccio Di Maggio. Di mino e Ambia, due degli uomini più vicini a Di Ganci, si preoccupano «Quando ho sentito di San Giuseppe Jato - dice il primo soprannominato per gli amici Balduccio... ho detto "a noi altri semu"». E l'altro «Brutte notizie ci sono! Quello che si è pentito... ripercussioni... Bai dassare Di Maggio... Questo cu 'u zu Totò erano amici!». Giovanni Bianconi A sinistra il killer della mafia, Giovanni Brusca