Staude il tedesco del bello sguardo

A Palazzo Pitti, il pittore sedotto da luci, colori e armonie d'Italia, da Firenze a Venezia A Palazzo Pitti, il pittore sedotto da luci, colori e armonie d'Italia, da Firenze a Venezia Staude, il tedesco del bello sguardo Atmosfere di sogno ed elegia, tra paesaggi e nature morte ~w\f\ FIRENZE I.'/ quasi una scena simboliM ca, una nemesi molto cruI I dele dell'arte. Hans-JoaI chim Staude, il pittore tedesco che da anni viveva a Firenze, ed era allora alle soglie dei settantanni, da mesi sta preparando con cura la sua mostra di rientro in patria, ad Amburgo. Tutto è pronto, in apparenza. Ma l'Italia della burocrazia e degli scioperi blocca le sue opere al confine. La mostra si inaugura, a cornici vuote, come una cerimonia concettuale. Staude non regge a quella simbolica cattiveria del destino e muore un anno dopo, nel '73, convinto «d'esser stato colpito dalle frecce avvelenate del voodo», lui, più tedesco di un personaggio di Thomas Mann, ma nato in effetti a Port-au-Prince, nell'isola di Haiti ancora legata ai ritmi gauguineschi di Pierre Loti: e per tutta la vita in realtà inseguirà quel fantasma d'isola «in cui s'impressero le prime mie immagini». Nel cielo esotico e chiaro che si «portava dentro», magari facendolo planare sopra Fiesole o Venezia. Non si può esser che grati a questa gentile mostra, organizzata da Susanna Ragionieri e Carlo Sisi, che sino al 29 giugno a Palazzo Pitti ci permette di meglio conoscere questo pittore, certo di rilevanza contenuta, ma gradevole e dall'esistenza così significativa per Firenze. Frequentatore dapprima dei celebri banchieri Warburg e dei Panowsky e di Cassirer, e poi a Firenze della Villa dei Tatti di Berenson, con il letterato Loria e Umberto Morra, giovane-vecchio gentiluomo dalla «sensibilità a fior di pelle» (studioso di Hoelderlin che dell'Italia scriveva a un amico: «Conosci Hyperion? qui è così») Staude si era sistemato in Toscana dopo un primo soggiorno tedesco, in cui s'era avvicinato alle poetiche rudi dell'espressionismo, dopo aver scoperto in Munch e Schmidt-Rottluff e la xilografia in stile Brucke, che è presente in mostra. Ma l'avanguardia non fa per lui e certo l'Italia (l'Italia dei metafisici e soprattutto di un artista così vicino alla sua sensibilità rosata e compassata, come l'amico Colaciechi) lo aiuta a ritrovare una distensione grafica e una serenità compositiva, che gli ricorda la luce haitiana. «Finché vedrò un albero dipingerò», decreta infatti giovanissimo, quando ancora il suo talento musicale sembrerebbe volerlo trasformare in un pianista da concerti. «Disegnare davanti al vero per me ora è tutto». «L'Italia credo mi abbia fatto conoscere la gioia della forma reale». Lo incantano i dintorni fiorentini, «un ondeggiare di colline, ma co¬ struite, formate», ed è il suo lato costruttivo-cézanniano («è lui il latte materno di tutti noi») secondo il precetto: non imitare, ma costruire. Precetto ch'egli contempera con le gentilezze, morbide d'affresco, delle sue radici tedesche, da Hildenbrand a von Marées che aveva stabilito: «Imparare a vedere è tutto». Anche se quest'irrequieto amico di De Pisis e di Cavalli, corroso dall'insonnia, questo «miglior allievo» di Carena e dei musicisti Dallapiccola e Castelnuovo Tedesco, sapeva bene che: «ci vuole tanto tempo prima che gli occhi comincino a vedere». La sua pittura è dunque questo esercizio continuo, quasi prefetale, dolcemente chiarista, per temperare lo sguardo, anche perché «in pittura quel che c'è di più bello è il guardare». Farsi quasi trasparenti, annullarsi nell'opera: «lasciar parlare le cose attraverso di noi. Servire la causa». E così anche «Venezia tanto amata fluisce dentro di me. E il risultato sono i quadri». Toni spenti, decantati, vermeeriani, come ne II cappellino di paglia, o seuratiani, per i tanti pulviscolali pastelli: un Casorati dilavato e stanco, rubando a Carena l'impianto di certi concerti agiscono nel silenzio». Consapevole di essere «immoderno» Staude moltiplica le sue «elegie romane», vicine allo spiumato pastoso di Mafai o cerca di catturare, nei ritratti, la «polpa luminosa dell'anima», con quella sua «pensosa allegrezza», dirà Colacicchi, che lo rende così estraneo alla critica del tempo. «E le cose più belle continuano a scappare dalla mia rete» ammette, portando nel suo studio «le persone per le quali in verità sono rimasto qui»: bottegari, garzoni, posteggiatori, ed anche hippy che cerca di capire, nomadi «che s'agitano senz'anima», «che vagano per il mondo senza vedere granché». Spesso figure in precario equilibrio, simboli dell'instabilità umana: sorpresi mentre dondolano sul tram, mentre sfilano in bicicletta, mentre tengono il pallone sulle spine. La guerra, la disfatta di un'Europa che, come ha scritto Castelnuovo Tedesco «è ancora coronata di fiori, come nell'antico mito, ma rapita per sempre», lo ha reso ancora più ansioso, perplesso. Nel '45, durante la ritirata, salta giù da un camion che lo riportava in Germania: si nasconde e torna al suo giardino, curato come da un monaco zen, al suo studio «luogo del lungo guardare», in cui ha scoperto nuovi «paesaggi». Capace di insegnare pittura alla Regina Maria José come di pranzare con l'autista della Sita che arriva a Castagno, di conversare col filosofo Colli o di educare un ragazzetto che il filologo Pasquali gli ha raccomandato, e cioè quel Lorenzo Milani che sta per diventare «il terribile prete di Barbiana», Staude pittoreaforista è un personaggio assolutamente degno di esser illuminato. Marco Vallora Diceva che Cézanne è «il latte materno di tutti noi», fu amico di De Pisis, «allievo» di Carena H. J. Staude. a sinistra «Natura morta con mele»; a destra «Via della Campora» campestri giorgioneschi ma filtrati attraverso una polverosità piuttosto pierfrancescana. Atmosfere trasognate, imborotalcate di bambagia, chiazzate di malve o di oleandri: «colori inventati che sono come i primi fui che si mettono sul telaio». Per tentare quest'indagine costruttiva, questa «ricerca delle forze della grande natura che