Lang: rifacciamo l'Europa partendo dalla cultura di Maurizio Assalto
discussione. Dal convegno sull'identità del vecchio continente una sfida all'egemonia Usa discussione. Dal convegno sull'identità del vecchio continente una sfida all'egemonia Usa Lang: rifacciamo l'Europa partendo dalla cultura TORINO L ' E dovessi ricominciare, ri% comincerei dalla cultura, i-l L'ha detto uno dei grandi *J I pad ri dell'unificazione europea, Jean Monnet. 0 forse no. Di chiunque siano queste parole, sono un buon modo per introdurre al tema del convegno organizzato ieri dal Premio Grinzane Cavour, «L'Europa delle culture. La cultura dell'Europa». Quando Sergio Romano, moderatore della sessione mattutina, le ha citate, al suo fianco Jack Lang, che presiedeva i lavori, ha sorriso scuotendo la testa. Il vulcanico ministro della Cultura francese negli anni ruggenti del mitterrandismo si è autodenunciato: «Era l'82, cercavo di convocare una riunione dei miei colleghi comunitari. I ministri dell'Agricoltura sì, quelli della Cultura no... Per essere più convincente ho citato Monnet, al condizionale: penso che se oggi tornasse a interrogarsi, forse... Da allora il pensiero gli è stato attribuito senz'altro. Inutilmente ho cercato di rettificare. Chiedo scusa». Ma il tema è posto. La cultura come base per la grande costruzione europea, prima e meglio dell'economia su cui si sono concentrati i padri fondatori. C'è però un problema. Lo enuncia Romano: «Che una cultura europea esista, si dà per scontato. Ma i suoi principali organi di diffusione sono autarchici, libri e giornali restano nazionali, e i molti tentativi di dare vita a iniziative continentali non hanno avuto successo. Un quotidiano europeo non esiste. 0 meglio uno esiste: è l'Heraìd Tribune, un giornale americano...». Come mai? Daniel Vernet, firma di punta di Le Monde, cita i problemi di lingua, le difformi tradizioni giornalistiche, il mercato pubblicitario molto ancorato a dimensioni nazionali. Paolo Galimberti, di Repubblica, aggiunge la struttura degli articoli («Un pezzo bellissimo in inglese, o in francese, o in spagnolo, tradotto in italiano non funziona più») e la diversa gerarchia fra gli argomenti («Da noi neppure un direttore esterofilo come Ronchey, quando venne alla Stampa, riuscì a portare nelle prime pagine la politica intemazionale»). Europa delle culture, cultura d'Europa: ossia, come costruire, come riconoscere un'identità comune a partire dalle appartenenze locali, come passare dalle tradizioni regionali alla dimensione continentale, senza precludersi la possibilità di percorrere in ogni momento il cammino inverso. «Qualcuno ha paura che l'Europa della cultura metta in pericolo le culture locali - osserva Lang -, Sono timori infondati. Il vero rischio è quello della omogeneizzazione, della standardizzazione intellettuale europea in base a modelli che vengono da fuori». L'ex ministro francese rilancia la sua crociata contro l'industria cinematografica e televisiva americana che soffoca quella del vecchio continente: «Noi vogliamo che le tv pubbliche e private si impegnino a diffondere i programmi e i film prodotti in Europa. Qui gli accordi del Gatt non contano, c'è l'eccezione culturale. E' una scelta semplice: da una parte la colonizzazione spirituale e morale, dall'altra la possibilità di stimolare l'immaginazione e la creatività». E in questo un compito importante incombe proprio sull'Italia, nel momento in cui sta per con¬ cludere il suo semestre di presidenza dell'Unione europea. «Ci attendiamo molto dal vostro nuovo governo», dice Lang. Ma come distinguere ciò che è produzione continentale e ciò che non lo è, quali sono i confini dell'Europa, fin dove si estende la sua cultura? Jesus Ceberio, direttore del Pais, osserva che «l'identità spagnola passa anche attraverso Buenos Aires, il Messico, la Colombia». Joachim Fest, per 20 anni direttore della Frankfurter Allgemeine, si spinge oltre: «Una cultura europea comune esiste davvero? E poi, è de¬ siderabile che esista? Il diverso non dobbiamo vederlo come una minaccia, ma come uno stimolo». Nella sessione pomeridiana, riservata agli scrittori e coordinata da Paolo Fabbri, il greco Vassilis Vassilikós, il celebre autore di Z, rende esplicito il timore: «La cultura, quando vuole diventare internazionale, rischia di essere come la nouvelle cuisine, priva di quei sapori propri delle cucine locali». E il bretone Jean Rouaud rivaluta la dimensione regionale come punto di partenza ineludibile per quell'universale a cui mira il lavoro letterario: «Qualcuno ha detto che l'universale è il locale senza i muri. Dobbiamo sostituire i muri con dei filtri». Bel problema. A Marcello Pacini il direttore della Fondazione Agnelli che in mattinata aveva individuato il carattere unificante dell'anima europea nella fondazione dei grandi diritti individuali - risponde implicitamente il trentenne poeta bosniaco Miljenko Jergovic: «Dalla mia prospettiva sarajevese riesce molto difficile parlare di cultura europea, perché l'Europa ha dimenticato la nostra elementare "necessità culturale": quella di rimanere in vita. L'Europa mi pare una vecchia dama vittoriana, le cui estremità vengono mangiate dai topi. In tutto il secolo, genocidi che continuano e si ripetono nell'indifferenza: è questo il carattere costitutivo dell'identità europea». Terribile umor nero. Però nell'Europa unita dobbiamo credere, ammonisce Gregor von Rezzori, il vecchio saggio: «Anche se è un mito, un'utopia. Ma un'utopia necessaria. E dopo la caduta delle ideologie, quasi l'unico sogno che ci resta». Maurizio Assalto Nell'immagine grande il convegno sull'Europa Sopra lo scrittore greco Vassilis Vassilikós
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