Hitler in uno specchio vuoto di Gianni Rondolino
Hitler in uno specchio vuoto Hitler in uno specchio vuoto Lavoro più interessante alla «Settimana» CANNES. Le immagini di Hitler che parla alla folla plaudente, il suo sguardo penetrante, allucinato, la sua voce roca, urlata, scorrono sullo schermo accompagnate dalla solita musica in stile wagneriano. Sono le immagini che abbiamo visto mille volte, nel «Trionfo della volontà» di Leni Riefenstahl, nei cinegiornali di attualità, alla televisione nei documentari sul nazismo. Ma questa volta è Hitler stesso, nel suo bunker di Berlino, a guardarsele compiaciuto. Un Hitler anch'egli allucinato, isterico, pieno di sé, che filosofeggia sul passato e sul futuro della Germania, del mondo intero. Che si guarda e si commenta. La giovinezza, l'amora per Eva Braun, la nazificazione del suo Paese, lo sterminio degli ebrei, la costruzione di una nuova Berlino millenaria, la guerra e la sconfitta. In questo suo delirio di potenza, si confronta con Goebbels, con Goering, con la stessa Braun, e con Sigmund Freud, contrapponendo la sua teoria razzista a quella psicanalitica. Potrebbe sembrare, e in parte è, un «pastiche», in cui storia e leggenda, realtà e mito si confrontano in uno spettacolo a tratti affascinante, a tratti piatto e didascalico, ma soprattutto, e al tempo stesso, pretenzioso e ingenuo, approfondito e superficiale. Ma non vi è dubbio che, al di là dei suoi evidenti limiti, questo «The empty mirror» (Lo specchio vuoto) dell'americano Barry J. Hershey, presentato alla Settimana della critica, è finora il film più interessante di questa sezione del Festival, che di anno in anno si fa sempre più modesta, forse inutile. Certo, il confronto con l'«Hitler» di Syberberg - che in sette ore ci mostrava, attraverso la figura e l'opera del dittatore, due secoli di storia e di cultura tedesca cercando di comprendere la natura profonda del nazismo - è impietoso. Anche perché Hershey affida il personaggio di Hitler a un attore incapace, grottesco, come Norman Rodway, e i personaggi minori gli ruotano attorno quasi fossero marionette farsesche e caricatura- li. Tuttavia i lunghi monologhi di Hitler, le sue considerazioni sulla politica come estetica, sul cinema come propaganda, sulla Germania («le ho rubato la storia, le ho rubato il futuro»), sulla sua stessa natura di autore, personaggio e opera d'arte («io sono al tempo stesso Omero, Ulisse e l'Odissea») ci coinvolgono, ci inquietano: come se quelle terribili e affascinanti immagini che scorrono sullo schermo nel bunker di Berlino potessero ancora travolgere le coscienze, trasformare la gente comune in obbedienti assassini. Per il resto, la Settimana della critica è stata parca di sorprese, se non negative, come l'insopportabile «Yuri» del coreano Yoonho Yang, in cui si mescolano erotismo, violenza e misticismo, o l'irrisolto «Mi ultimo hojnbre» della cilena Tatiana Gaviola, che cerca di coniugare storia d'amore e storia politica. Meglio il delicato e sensibile «Los aveux de l'innocent» del francese Jean-Pierre Améris, ritratto di un giovane provinciale a Parigi che, come il Candide di Voltaire, guarda il mondo con occhi ingenui, ma si scontra con la durezza della realtà, senza tuttavia smarrire le ragioni della sua infinita speranza. Gianni Rondolino
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