MUSICA Un pianoforte per sopravvivere

II giornalista cede il passo allo scrittore Un vecchio, un grumo di note, una raga2za scalza, la morte che incombe: in anteprima un racconto di Igor Man MUSICA Un pianoforte per sopravvivere ^IMPROVVISAMENTE il I vecchio sentì che doveI va suonare. Guardando, I supino nella branda, il _*J soffitto d'assi, gli parve che i segni neri tracciati dall'umidità e dalla sporcizia, assumessero finalmente fisionomia: si rivelassero. Ma sì, erano note musicali. Chiave di violino, Do, La, Fa, poi Sol: musica. Le sue mani ritorte si agitarono sulla coperta ragnata; battevano il tempo con timidezza, ma spedite. Da quanti giorni se ne stava coricato? Il vecchio cercò di ricordare, ma smise subito: troppo faticoso. E poi c'era la musica, segnata su quel grande spartito. Fuori, d'un tratto, ululò un gemito lungo e straziante, più grido che lamento: nella segheria costringevano un pezzo di legno vergine contro i denti caldi della sega elettrica. Il vecchio immaginò l'odore del legno tagliato, della segatura: come una ferita aperta in un tronco d'abete. Tanti alberi corrono su per la collina, anch'egli corre attraverso gli abeti. Un cane è con lui; sua madre lo chiama. Anche la voce della madre è musica; oramai non la ricordava quasi più. La voce rimbalza contro i tronchi; lui e il cane s'arrestano ansimanti. Poi, facendo imbuto con le mani, lui risponde al richiamo. Musica giù per la collina, fin dentro la casa. Nel caminetto c'è il fuoco, nel fuoco arde la legna. Il calore zampilla sulla faccia e la pelle si stira felice. Canta il sangue nelle vene, il pianoforte è nell'angolo. Le mani corrono sulla tastiera. Il vecchio sentì che doveva suonare. Provò a levarsi a metà sul giaciglio. Impossibile. Allora si lasciò scivolare a terra dalla branda, abbassandosi sul fianco destro con tutto il peso del corpo. Liberatosi della coperta, cominciò a strisciare sul pavimento fino al pianoforte. Una traversata lenta, difficile. La sirena di mezzogiorno spaccò l'aria ed il vecchio ebbe un sussulto; poi sorrise: musica anche quella. Tutto era musica: il suo cuore in tumulto, le ginocchia graffiate, il fiato che gli mancava. Riuscì a tirarsi su, pezzo a pezzo: prima sulle ginocchia, le mani aperte contro il pavimento; poi, il ventre poggiato sullo sgabello girevole, facendo forza con le unghie aggrappate al leggio, raddrizzò per un attimo la persona, in modo da crollare sul seggiolino. Finalmente era davanti al pianoforte: un piccolo «verticale» da music hall, di quelli su cui pigiano i negri, un avanzo di qualche condotta scenica. Il vecchio lo aveva comperato sei anni prima, a Cinecittà. Aveva guadagnato bene, quella volta: una bella parte di zio in un film musicale. Lui, ad un certo punto, suonava il piano. Il regista gli disse: «Ma sa che lei è bravo? Meglio d'un concertista». Per un attimo fu per tradirsi: «Amico mio, lo sa che io sono...», ma riuscì a fermarsi in tempo. Oh no, nessuno doveva sapere. Adesso era soltanto un vecchio profugo con passaporto Nansen, molto decorativo, un buon generico primario; e basta. L'altro non c'era più: scomparso, da quella sera in cui suonò tanto Brahms e poi Debussy, e bevve fino a sentirsi scoppiare il cuore. Le sue mani non andavano più tanto bene, glielo avevano detto: «Forse, Maestro, sarebbe bene sospendere i concerti. Una cura razionale e chissà, lentamente...». Lui, invece, aveva suonato tanto quella sera, e aveva bevuto. Così l'indomani lo avevano portato all'ospedale. Quando ne fu dimesso non andò a casa, corse alla stazione. I primi giornali li aprì in Svizzera: Misteriosa fuga d'un celebre pianista; sparizione misteriosa d'un grande concertista. Quanti anni erano passati? Dieci, venti, forse mille. Ma che importava? Adesso era di nuovo davanti a un pianoforte. Lo aprì e la tastiera gli venne incontro come uno schiaffo tenero. Un pianoforte: cinquantadue tasti bianchi, trentasei tasti neri. Suona il pianoforte, suona da solo, basta affidarsi alla tastiera. E distese le mani, gli occhi socchiusi, il mento proteso: Brahms, Concerto per pianoforte, opera 83. Il suo cuore s'aprì alla musica che s'alzava dalla immobile tastiera. Oh, non c'è bisogno di muovere le mani, le dita, basta abbandonarsi, chiudere gli occhi, così. Ecco l'appassionato Allegro in Re minore, ecco l'Andante sereno e disteso: un po' di pace finalmente: la sentiva salire come un largo respiro e beveva quell'alito sicuro. Quante parole, suoni che parlano, nella musica. Alberi e fiumi e sale illuminate; lui corre tra gli alberi, bianca sua madre nella sera, il caminetto s'avviva Camminano le ruote del tempo, alzano nuvole di spazio, il giovinotto ha salpato le mani materne, adesso dà concerti. Oh l'odore dei giardini, foglie e malinconia, la finestre aperta sulla vasca, il breve palpito del vento sulle tende del salone, le Mercedes che tagliano i crocicchi, l'odore di cuoio, rhum, avana. L'orologio della torre: quanti rintocchi? Che importa, è musica. Non bisogna muovere le mani, solo aspettare, affidarsi al pianoforte. «Che fai, nonno?», gridò la ragazza entrando. «Così a piedi nudi». Era spaventata. «Non vedi? Sto suonando», rispose il vecchio. Poi sorrise e curvò la fronte, sentendo una grande forza che lo tirava con furia verso la tastiera che gli si accese contro in uno sparo di note. La ragazza lo alzò per i capelli. Sorrideva. Cinque minuti dopo la baracca era piena di gente. La ragazza singhiozzava in un angolo aiutata dalla siciliana: «Povera te, mischinedda», diceva. Una cantilena. Avevano trovato due candele e le accesero: una a destra e una a sinistra del vecchio. Lui riposava sulla branda, coperto dal lenzuolo rattoppato. La branda stava in mezzo alla baracca. Il lenzuolo arrivava fino al naso del vecchio, lasciando scoperti a metà i piedi nudi. Se tiravano interamente il lenzuolo sul viso, a coprirlo, i piedi restavano fuori del lutto. Sembravano d'avorio, i piedi: il viso, invece, era bianchissimo. Specie la fronte, come spolverata di luna. I capelli, lunghi e morbidi, ricadevano in teneri riccioli sul cuscino. Il grande naso aveva perduto l'arrogante fermezza, s'era addolcito in contorni più sommessi. Sotto il lenzuolo si indovinavano le mani in croce. Ad un tratto la siciliana smise la cantilena: «Il prete», disse. «L'avete chiamato il prete?». «Già fatto», rispose l'arrotino, «che vi pare, cristiani siamo». E si guardò in giro petulante. Nessuno raccolse la sfida, solo l'elettricista si strinse nelle spalle ed uscì. Fuori c'era il sole e si respirava meglio. Cinque bambini giuocavano a rincorrersi nel fango. Gridavano come cuccioli affamati. La segheria continuò a stridere ancora per un po', quindi smise. Asciugandosi le mani, il falegname venne a dare un'occhiata al vecchio. Le candele erano consumati; a metà. La ragazza piangeva sempre cullata dalla siciliana: «Mischinedda, e ora comu fai?». Non aveva nessuno, ma il vecchio non era suo nonno. Due giorni dopo aver preso «in affitto» la baracca, a valle dell'Inferno, dietro la Madonna del Riposo, cadde un fulmini!. Il fulmine colpì la ciminiera d'un'antica fornace. La ciminiera cadde, e rovinando schiacciò una baracca. Morirono tutti, solo la ragazza si salvò. Aveva dieci anni. E così il vecchio l'aveva presa con sé. Lei lo chiamava nonno. Il vecchio non si sapeva bene chi fosse. Era arrivato un giorno di marzo, giusto cinque anni prima. Aveva preso dimora nella baracca rimasta libera per la morte del suo occupante: uno stalliere ammazzato da un mulo. 11 vecchio fece dare una passata di calce al piccolo vano e alla cucinagabinetto. Non aveva che una valigia di fibra e il pianoforte su cui non suonò mai. Una volta disse alla ragazza: «Vieni, t'insegno». Ma era stonata, non capiva; lui se ne accorse subito. Faceva il generico primario e, ogni tanto, qualcuno delle baracche gli diceva d'averlo riconosciuto in un film. «Ah sì?», rispondeva il vecchio ed era tutto. Non s'era mai visto sullo schermo. Non gli interessava. A lui importava fare il «cachet» e basta. Ma poi le cose andarono sempre più male. Finché non lo chiamarono più, e nemmeno come comparsa per la tv era buono perché troppo lento. Cosi aveva venduto il bastone col pomo d'argento, l'orologio con dedica, tutti i costumi, i vestiti. La ragazza lavorava dalle monache polacche. Le davano qualcosa e una minestra. Infine il vecchio s'era messo a letto, malato. «Nonno, che hai?». «Aspetto». La ragazza non aveva capito che il vecchio aspettava la morte. Ed essa, finalmente, era venuta. Con la musica. Per questo, ora, il vecchio sorrideva. Due giorni avanti aveva venduto le scarpe. Per comperare il pane e le arance. Anche caramelle, mezzo etto. Aveva fatto trovare tutto sul pianoforte. «Grazie, nonno», disse la ragazza, ma poi s'accorse delle scarpe e scoppiò in singhiozzi. «Perché piangi?, non mi serviranno più». La folla sulla porta fece largo, mentre il brusio cessava. Il prete entrò nella baracca. Si guardò in giro stupito: tutta quella gente. La ragazza si asciugò gli occhi. Il prete benedisse il morto, poi, nell'andar via, s'accorse dei piedi nudi; li per li, entrando, non ci aveva fatto caso, così confuso com'era. «E questi», disse, «come mai?». «S'è venduto le scarpe per comperare il pane». Il prete si guardo i piedi: troppo piccoli; allora sfilò dal collo la sciarpa di lana. Si fece dare un coltello e tagliò in due la sciarpa. Poi cominciò a bendare i piedi del vecchio. Prima uno, poi l'altro. Intanto avevano trovato la busta. Era grandi; e gialla, sigillata. Il prete l'aprì. Lesse a voce alta: «In verità il mio nome è J. W.». Era una lettera estremamente patetica. In essa il vecchio diceva, a un certo punto, con una sorta di vanitosa spavalderia, di aver preferito la vendita delle scarpe a ciucila del pianoforte; chiedeva, poi, al suo letto di morte qualcuno - «non importa chi» suonasse La caduta di Varsavia, «del mio illustre compatriota Chopin». «E adesso», disse l'arrotino quando il prete si tacque, «chi suona, voi, padre?». «Oh no». Tirarono fuori la musica. Tutti erano molto eccitati. Uno provò col dito il pianoforte: «Va'», disse, e ridacchio. Poi la cassiera del cinema sedette al piano. Era stanca e magra. Suonava male. Nell'aria corrotta le note si liberavano a stento, disperate. 11 prete a un certo momento s'inginocchiò. La ragazza aveva ripreso a piangere. Igor Man che gta, basta abdere gli occhi, sionato Allee, ecco l'Anteso: un mente: la ome un beveva Quante parlano, eri e nai alma caiva niera cadde, e rovinando schiacciò una baracca. Morirono tutti, solo la ragazza si salvò. Aveva dieci anni. E così il vecchio l'aveva presa con sé. Lei lo chiamava nonno. Il vecchio non si sapeva bene chi fosse. Era arrivato un giorno di marzo, giusto cinque anni prima. Aveva preso dimora nella baracca rimasta libera per la morte del suo occupante: uno stalliere ammazzato da un mulo. 11 vecchio vpfrmpsademvblaJmvtsvdc Igor Man: pubblica da Rizzoli «11 professore e le melanzane»

Persone citate: Brahms, Chopin, Debussy, Igor Man, Nansen

Luoghi citati: Svizzera, Varsavia