Storia di un crollo «lumbard»

Storici di un crollo «lumbard Storici di un crollo «lumbard » Da «re» a borgomastro con i cerotti LA LEGA CHE GOVERNA MILANO ARCO Formentini, l'uomo che si incoronò borgomastro di Milano - 543 mila voti tre anni fa, la città dei danè in pugno, le bandiere leghiste a fare vento sulle guglie del Duomo - una di queste mattine si sveglierà di soprassalto. Che brutto sogno, precipitare a testa in giù. La signora Augusta che in un'intervista aveva rivelato un delicato segreto notturno («Prima di addormentarci ci teniamo sempre per mano») dovrà preparargli un caffè robusto e parecchie paroline dolci, prima di raccontargli la verità. Se il signor sindaco terrà a bada lo stantuffo del cuore per tutto il racconto ascolterà più o meno quanto segue. C'era una volta Formentini, ex funzionario di Bruxelles, bossista della prima ora, sorriso largo e parole rudi. Nella città squassata dagli arresti e dalle fughe dei garofani, conquistò in una notte Palazzo Marino. Era il 20 giugno del 1993. Disse: «Con rigore, competenza, senso di responsabilità, pragmatismo, faremo rinascere Milano». L'ovazione del 58 per cento dei milanesi gli ingrassò le spalle e l'eloquio: «Basta con la cupola affaristica! Basta con il vecchio regime consociativo!». Su sessanta consiglieri, trentasei indossavano l'armatura leghista. La minoranza se ne stava dispersa e annichilita. I commercianti erano con loro, il nuovo che avanza. Gli imprenditori erano con loro. Le casalinghe. Gli operaiacci, le segretarie secche e pure i tassisti. E i giornali strillavano: «Evviva». Tre anni più tardi, appena ieri, Formentini stava lì (spettinato) in attesa che un paio di voti pescati tra gli indipendenti e i pidiessini dal cuore dolce, gli facessero la gentilezza assai consociativa di non farlo affondare del tutto dopo l'ennesimo scandaletto affaristico. L'armatura leghista è rimasta a ventisette consiglieri. In nove hanno cambiato giacca. La giunta gli si è scassata sette volte negli ultimi ventiquattro mesi, più o meno: un burrascoso cambio di assessori ogni novanta giorni. Per primo toccò a Marco Vitale, quello che faceva immagine, il Superassessore che avrebbe dovuto gestire tutto o quasi, il Bilancio, il Demanio, i Tributi, le Privatizzazioni. Se ne andò dopo un percorso al netto di nulla, sibilando: «Incompetenti». Per ultimo è toccato a Cristina Gandolfi, sospesa dalla magistratura per questa storiaccia di assicurazioni. Ma solo un paio di mesi fa toccò al ragguardevole Furio Patri, che Formentini nominò assessore alla Famiglia nonché alla Condizione femminile. Scelta assai pertinente: Patri risultò denunciato dalla ex moglie per molestie. Dimissioni. Va detto che la fortuna non vuol saperne di Marco Formentini. Una mattina la signora Augusta va al mercato per la spesa. Un fotografo di passaggio la intercetta mentre carica peperoni, sedano e lattughino nel retro di una gran bella automobile. Che è quella ufficiale del marito, con autista incorporato. Formentini grida al complotto. Un'altra mattina, quella del 31 gennaio 1996, un grazioso paese che si chiama Cerro Maggiore e per dir così è la pattumiera di Milano chiude la sua discarica. Lo si sapeva da un paio di anni, ma fa nulla, 2300 tonnellate di rifiuti solidi urbani, si mettono a dormire sulle strade di Milano. E l'inizio dell'emergenza rifiuti. Questa volta è un complotto della Regione, nel frattempo diventata polista. Ed è un complotto berlusconiano pure lo scoop di «Panorama» che pubblicò l'agenda di servizio del povero Formentini: pagine bianche, rari appuntamenti, mai prima delle 10,30 perché il sindaco si sveglia tardi, mai prima delle 17,30 perché dopo pranzo il sindaco riposa. Massi, è sfortunato Formentini. A suo tempo se la prese con il card. Martini perché l'organo della Curia scrisse: «A Milano regna il non governo». Se la prese con il prefetto Rossano perché lo chiamò «Pinocchio». Si incapricciò del Leoncavallo trasformandolo in un caso nazionale. Transennò il Parco di Piazza Vetra contro i ragazzi notturni. Rivoluzionò il traffico facendo imbufalire i tassisti. Scoperchiò strade innervosendo i pedoni rampicanti e pure il vecchio Montanelli. Prendete le Olimpiadi. Si candida Roma e il Coni dice sì. In quella si sveglia il Giuseppe Babbini, autista di Bossi, nonché consigliere comunale che legge la notizia sulla «Gazzetta dello Sport». Esclama: «E Milano no?». Formentini lo prende in parola. Chiama il Coni. Gli dicono: «Lei lo sa che i termini scadono il 10 gennaio?». «Ah», dice lui. «E il 10 gennaio è domani», gli dicono loro. Prendete il cantiere del Piccolo Teatro. Formentini ci ha voluto un orologio che fa il conto alla rovescia dei giorni. Si azzera lo scorso 19 luglio 1995. Lui non si perde d'animo e va a inaugurare il cantiere come se fosse finito. Pensa che sia comunque questione di settimane. Invece no: l'impresa di costruzioni Ifg Tettamanti fallisce e lascia aperti lavori per 732 milioni. Se ne riparla per il prossimo luglio. Prendete il Padiglione di Arte contemporanea distrutto dalle bombe del 27 luglio 1993. «Lo ricostruiremo in un anno esatto», dice il sindaco. Niente da fare. Il progetto si incasina, si ferma, riparte. Se ne riparla per il prossimo luglio. Riassumendo: Formentini aveva una maggioranza e una giunta con otto assessori. Ora la maggioranza non c'è più. Nel frattempo gli assessori sono cresciuti a quattordici, ma in realtà sono dodici perché il molestatore non è stato sostituito e la Gandolfi se n'è appena andata. In compenso sono nate tre commissioni di inchiesta per scandali tangentizi e affini. Partito dal 58 per cento dei voti, ha smagrito la Lega fino all'attuale 11 per cento. Un record. Bossi (al momento) nicchia e si gode il Nord-Est. Qualche mese fa gli ha detto: «Oè, qui non vedo gru, non vedo cantieri». Formentini ha tenuto botta. E ora toccherà a Augusta raccontargli da principio la storia. Con un triplo caffè. Pino Corrias

Luoghi citati: Bruxelles, Cerro Maggiore, Milano, Roma