Quando i comunisti fanno i borghesi di Michele Serra

LA STAMPA anteprima. Il voto del 21 aprile e le nuove alleanze: un saggio di Michele Serra su «MicroMega» Quando i comunisti fanno i borghesi SMMESSO che sia proprio questa inedita sconcertante ma perfino spiritosa partnership tra alta borghesia e sinistre ciò che spiega il voto del 21 aprile, dico subito che non so chi sia Robinson e chi Venerdì, oggi su questa isola tutta da scoprire. Non sono, del resto, un politologo, non uno storico e probabilmente nemmeno un intellettuale. Però mi consolò leggere, mesi fa, un'intervista di Hans Magnus Enzensberger sull'Unità nella quale spiegava la sua lunga e illustre milizia di pensiero definendosi «non un teorico, ma uno che si basa sulla propria esperienza». Solo della mia esperienza, dunque, voglio farmi forza per raccontare quello che penso di questa nuova situazione.!...) L'avvocato Ambrosoli viveva e lavorava a pochi metri da casa mia, in zona Magenta. E prima di essere ucciso andò a mangiare ai Tre Fratelli, in via Terraggio, dove spesso, la domenica, mi ritrovavo con i miei genitori. Ma tutte queste cose - e la storia terribile e nobilissima di un civil servant assassinato perché difendeva la legalità - le seppi poi leggendo il libro di un comunista, Corrado Stajano, il cui titolo - Un eroe borghese - è davvero tutto un programma, se si pensa che la memoria del liberalmonarchico Ambrosoli non è stata tenuta viva dalla coscienza della sua classe. Ma piuttosto da quella vera e propria «scoperta della legalità» che, tra piazza Fontana e Frati Neri, diventava sempre più patrimonio della sinistra. Il centro borghese di Milano - paradigma di quel tanto o di quel poco di grande borghesia della quale l'Italia disponeva - andava nel frattempo mutando profondamente il proprio volto sociale e culturale. Arrivarono gli Anni Ottanta. Arrivarono i nuovi ceti professionali ingordi e spregiudicati che furono la spina dorsale del craxismo. Arri varono il mito dell'arricchimento e del potere facile, e con loro la corruzione di massa. Tangentopoli. E il «senso dello Stato» arretrava di pari passo: ovunque, anche nel pei milanese, preda di quel penosissimo abbaglio che fu il «migliori smo». Sulle ceneri di mai nate virtù grande-borghesi, nacque la gran deur, Zumpen-borghese dei Ligre sti, del potere craxiano, delle gran di opere (come foglie di fico da applicare sopra la nuda arretratezza dei servizi; delle infrastrutture, di quel corretto funzionamento dello Stato, che ora più che mai rimaneva un sogno incompiuto). Ritrovai parte dello spirito lega litario delle mie prime esperienze nel pei in movimenti come Società Civile: con molte forzature giusti zialiste, magari delle quali non è il caso di parlare adesso, ma imbattendomi di nuovo nell'intatta sen sazione che in Italia ci fosse, anco ra e sempre, una «rivoluzione delle regole» da compiere. Furono anni tutti in difesa: di resistenza e a tratti di arroccamento Anni nei quali l'opposizione a un «nuovo» che aveva connotati di de crepita furbizia, di immoralità, di ostinata renitenza della mentalità nazionale a qualunque disciplina civile, comportava la sprezzante accusa di essere «vecclù» e magari «nostalgici». Ma esserne usciti vivi e vegeti, politicamente parlando, è forse il massimo merito storico del la sinistra italiana, dei suoi dirigen ti, dei suoi militanti e dei suoi intellettuali: nonché la base sulla quale, oggi, si può sperare prudentemente in una qualche vera novità. Ammettiamo che questa vera novità sia la riforma dello Stato. Che in Italia significa, né più né meno, la costruzione quasi ab ovo di uno Stato e di una classe dirigente. Non ho certezze - al massimo speranze - sull'effettiva capacità dell'Ulivo di farcela. Dico solo (e questo è poi il senso ultimo di questa mia riflessione) che non mi stupirebbe, se questa è la posta in palio, trovare fianco a fianco due antichi nemici, l'alta borghesia e, come direbbe Feltri, «i comunisti». Perché c'è una convergenza di interessi che porta queste due antiche tribù, sopravvissute allo sconquasso della Prima Repubblica, e tra l'altro non indenni dai suoi guasti, a desiderare questo incontro: la costruzione di una classe dirigente moderna (di una nuova borghesia) come condizione per risanare il Paese. Ha ragione, in questo senso, chi da sinistra teme un eccessivo spostamento al centro del pds: perché il centro di cui si parla è irresistibile, e non è il centro politico (concetto, ormai, tanto vago che se ne occupa solo il filosofo Buttiglione), ma il centro amministrativo, è lo Stato. E' la macchina pubblica, sono i ministeri, la burocrazia, le leve e gli ingranaggi che governano da mi lato gli ammortizzatori sociali, e dall'altro regolano l'iniziativa economica. In quel luogo è prevedibile che si scontreranno gli interessi diversi di questo inedito e composito blocco sociale: fu Prodi, del resto, a dire qualche mese fa che «il prossimo presiderte del Consiglio rischia di lucidare le maniglie di casa Agnelli». Che, cioè, il capitalismo familiare italiano è uno dei proble- mi strutturali del Paese. Che il potere economico ha basi accentrate, anguste, poco democratiche. Ma questo prevedibile conflitto, e reciproco sospetto, non è bastato, evidentemente, a minare già in partenza la Strana Alleanza: il desiderio-bisogno di costruire una forte classe di governo, uno spirito pubblico più che nuovo inedito nel Paese, un sistema di regole finalmente mtelleggibili, è avvertito come una vitale urgenza. Come un'«ora zero», una ripartenza dopo il lungo sfascio degli ultimi due decenni. Non so, voglio dire, se il «capitalismo ben temperato» di cui parla Prodi, le sue public-companies, il suo Stato leggero ma davvero arbitro, piaceranno a Cuccia, ad Agnelli e a Dini. So che non è affatto stupefacente che il personale di questa auspicata rivoluzione pubblica provenga in larga parte dalla sinistra ex comunista e dal notabilato di Stato, dai Veltroni e dai Manzella, dai sindaci progressisti e dai Ciampi: e da dove, sennò? Dalla destra così come l'abbiamo vista, così come ci si è presentata? Ma a quale «progetto» di lungo respiro, parlando di Stato e di spirito pubblico, si è mai ispirata l'inverosimile destra aziendalista di Berlusconi? Il candidato Berruti, nei suoi comizi, prometteva che «se il 21 aprile il Polo vincerà, quel giorno prenderà il posto del 25 aprile come festa nazionale». Ma un imbecille così, quanti voti avrà fatto guadagnare, nel suo piccolo, ai suoi avversari? Berlusconi, i suoi avvocati, i suoi compagni di scuola, i suoi presentatori e i suoi coimputati non risultano ispirati da una visione del Paese e della vita pubblica diversa da quella alla quale siamo purtroppo abituati, in Italia, da sempre: l'idea che farsi i propri affari, e gli affari propri, sia di per sé pubblicamente utile ed esemplare è la puerile caricatura italiana dello spirito del capitalismo. E l'impressione che se ne ricava, dall'esterno, è che la libertà d'intrapresa sia un eufemismo per dire i propri porci comodi. Il grande capitale tradizionale non ha fatto forse anche lui i propri porci comodi? Sì. Ma ha almeno simulato - se non messo in pratica una concezione del fare privato legata alle proprie «responsabilità pubbliche». Concezione che se è stata ipocrita e classista, ha generato a tratti una cultura, e scampoli, appunto, di una classe dirigente. Che Agnelli produca, assieme alle sue automobili, anche la Stampa e il Corriere, e che Berlusconi produca Mike Bongiorno e Sorrisi e Canzoni non è affatto indifferente, quando si deve valutare l'incidenza di un potere economico sugli equilibri e sulla psicologia di un Paese. E sulla formazione della sua classe dirigente. E che settori della grande borghesia moderata abbiano scelto per interlocutori gli uomini della sinistra - e viceversa - dipende anche da questo: dall'attitudine di guardare alla società e alle sue istituzioni secondo un principio di responsabilità. Caricandosi sulle spalle il compito di dare una forma, un senso, una direzione a un Paese da troppo tempo abituato, proprio come invitava a fare Berlusconi, ad inseguire solo i propri estri individuali e il proprio infantilismo civile: siccome le regole impicciano, facciamone a meno. L'esito paradossale del cammino della sinistra italiana - diventare «borghesia» - forse è meno paradossale se quello che ho cercato di spiegare è vero. Questo apre, naturalmente, infinite discussioni sulla funzione e gli scopi della sinistra in generale, e in particolare sulla effettiva rappresentanza, in questa sinistra di governo, degli interessi deboli; sul ruolo di Rifondazione e sulla sua difficile convivenza con l'Ulivo. E in questo, del resto, il governo si giocherà la sua credibilità: se riuscirà a conciliare gli interessi collettivi con quelli di tradizionale cura della sinistra, se cioè saprà essere insieme classe di governo e strumento di una maggiore giustizia sociale, farà la sua strada. Altrimenti, cadrà su se stesso come un castello di carte. Ma mtar.to, in attesa di metterci le mani nei capelli quando il pullman di Romano Prodi comincerà a sbandare, godiamoci il verosimilissimo (...) scenario di ima destra forte, ben radicata socialmente, ricca di denaro e, checché se ne dica, di strumenti di informazione, che non è stata in grado di mettere in campo una credibile squadra di governanti. (...) Che deve assistere, rabbiosa e incredula, allo spettacolo dell'arruolamento in massa degli ex «rivoluzionari di professione» nelle file dello Stato italiano. Che deve sopportare, in un Paese moderato e ancora profondamente «anticomunista», la sua esclusione dalla stanza dei bottoni, che è prima di tutto un'autoesclusione. Verrà il giorno, forse, che anche questo ennesimo tentativo di «fare l'Italia» fallirà. Intanto, come invita a fare Luigi Pintor, metto da parte dubbi, pessimismo, ragionevoli diffidenze, e salgo sul carro del vincitore. Per troppi anni ho fatto grandi sogni. Oggi voglio accontentarmi di questa piccola realtà: il funzionario comunista che si mette una cravatta più consona e sale a Palazzo, si siede dietro una scrivania e prova a far funzionare le cose. Michele Serra «Non stupisce trovare fianco a fianco due antichi nemici. Perché c'è accordo di interessi» ln alto, a destra, Michele Serra; qui accanto Carlo Azeglio Ciampi e, a sinistra. Enrico Berlinguer

Luoghi citati: Italia, Magenta, Milano