I suoi scritti, spie del dolore di Ferdinando Camon

I suoi scritti, spie del dolore Nei manoscritti che ha lasciato c'è la spiegazione della follia I suoi scritti, spie del dolore PRENDE la pistola del padre e, in più, carta e penna. Attenzione alla carta e penna: con ogni probabilità, lì c'è la spiegazione di quest'ultimo gesto e di tutta la vita, cortissima. Di solito, chi vuol scrivere qualcosa prima di uccidersi, lo scrive, poi si spara. Ma questo caso è diverso, altrimenti, purtroppo, non farebbe più notizia. Questa volta il protagonista, un ragazzo di 15 anni, prima liceo scientifico (buoni risultati a scuola, quindi niente conflitto con i professori), mette nel caricatore della pistola un solo colpo, annota sul foglio: «Ore...», punta la canna alla testa e preme il grilletto. Non succede mente. Lui prende la biro e scrive, sul foglio, la prima riga, così: «Non è successo niente». Guarda l'orologio, annota la nuova ora: son passati solo pochi minuti. Riprende la pistola e preme il grilletto per il secondo colpo. Il colpo non c'è. Scrive la seconda riga: «Ancora niente». Segna il nuovo orario, il terzo. Fa partire il terzo colpo. Il colpo c'è, e la terza riga si ferma lì, incompleta. Aveva 15 anni. Per 4-5 minuti ha giocato con la morte, e l'ha tenuta in scacco. Era questo che voleva. Non voleva morire, ma stare in contatto con la morte. E testimoniare sulla carta questo contatto ravvicinato. C'è, nel rituale della roulette russa, una fascinazione, per cui chi lo fa lo fa fino a restarci. «Non può» fermarsi e tornare indietro. Anche nel film americano («Il cacciatore») che ha lanciato nel mondo questo tipo di scommessa col destino, il protagonista che fa del gioco della roulette russa una professione (ricava denaro, da mandare a un amico ferito in guerra) non si ferma più, va in cerca del colpo fatale. Finché lo trova. E' un richiamo. Chi l'ha sentito non sente altro. Spesso chi si uccide non vuole morire, vuole un'altra cosa. Vuole amore. Dei genitori, dei parenti, dell'amica, degli amici, della tv. Vuole chiamare. Vuole farsi ricordare. Questo ragazzo voleva tutte e tre le cose, e lo ha scritto: ha scritto ai genitori che li ama, che chiede perdono, e ha lasciato delle poesie e altri manoscritti. Dunque, coltivava in segreto la scrittura, in prosa e in versi. E' importante. Da qui in avanti forse sbaglieremo a parlare della scrittura, ma è un rischio che vogliamo correre, perché siamo convinti che spiegare un suicidio serva a non farlo ripetere. La scrittura è la spia di un rapporto infelice col mondo. Tutta la scrittura, anche quella dei geni. Si scrive perché non si ha un rapporto immediato e vissuto con la realtà, le si risponde tardi, quando si è tornati a casa, ci si è nascosti e chiusi a chiave. Pirandello: o si vive o si scrive. Nei ragazzi di questa età, la vocazione a scrivere è il presentimento di un rapporto perdente o struggente col mondo. Ma è anche la correzione di quella perdita, è anche una vittoria, anzi «la» vittoria per eccellenza, perché la scrittura (quella che incontrano a scuola i ragazzi, a contatto ogni mattina con poeti e prosatori «immortali») ha il senso dell'eternità. L'età della scrittura è l'età dell'adolescenza: tutti gli adolescenti sono poeti. Ce lo ricordano il Vico e il Pascoli. Gli adolescenti sono sospesi fra amori e abbandoni, esaltazioni e voglia di morire, sentimenti grandiosi e paura di dirli. Molti hanno perfino una oscura vergogna di essere quel che sono, fisicamente: di essersi incarnati in quelle forme. Quel che non riescono a dire a nessuno, lo dicono al diario. Quando lo dicono in versi, lo dicono agli immortali, con cui passano le giornate. Forse, a leggere i versi di questo ragazzino, non ne ricaveremo nulla. Eppure, c'è tutto, lì dentro. Ferdinando Camon

Persone citate: Pirandello